L'anno scorso, i flussi di capitali in uscita dalla Cina verso l'Europa sono crollati del 44% rispetto al 2019, che aveva già visto una notevole flessione rispetto al 2017 e 2018. Nel breakdown tra i paesi UE, la Germania ha continuato ad essere la destinazione preferita, mentre l'Italia è scesa oltre il sesto posto dal quarto o quinto che occupava negli anni precedenti. Paradossalmente (se si tiene conto delle tensioni geopolitiche) nel 2020 le aziende cinesi hanno investito più in USA che in Europa.
Sono i dati per buona parte sorprendenti, considerando la narrazione corrente dei media sull'invasione di capitali cinesi, alla ricerca di asset a prezzi stracciati, che emergono dal report annuale di Baker Mckenzie e Rhodium Group, che da più di 10 anni conducono una ricerca approfondita degli investimenti cinesi in Europa e USA che prende in considerazione esclusivamente gli investimenti "greenfield" e le acquisizioni sopra il 10% del capitale: un dato indicativo di quanto le aziende cinesi scommettano su investimenti di lungo termine.
Quando si parla di flussi di investimenti diretti tra Europa e Cina i dati vanno sempre presi con molta cautela e sono difficili da riconciliare. Questo è dovuto al fatto che diversi paesi "contano" i flussi di capitali in entrata in modo diverso e che spesso vengono inclusi nella conta anche movimenti di capitali che non rientrano nella categoria di investimento diretto.
Per questi motivi il report Baker Mckenzie e Rhodium Group, condotto sulla base di criteri omogenei nel tempo, è particolarmente significativo.
Che cosa ha pesato su questo calo? Vari fattori: anzitutto, la pandemia che ha reso più complessi gli spostamenti e i viaggi tra i due continenti; la Cina è il paese con le misure sanitarie all'ingresso più severe, e la combinazione di queste con quelle previste in Europa ha scoraggiato i manager delle aziende cinesi dal recarsi in molti paesi europei.
Il secondo motivo è che, temendo appunto quell'"invasione" anticipata dalla stampa, alcuni paesi europei si sono affrettati ad adottare normative di controllo all'ingresso di capitali da extra UE (e nel caso dell'Italia anche intra UE) espandendo a dismisura il concetto di "settori strategici" spesso in maniera talmente vaga da farvi rientrare quasi tutto.
Questa reazione ha avuto effetto boomerang in quanto molti investitori stranieri (e non solo cinesi) finiscono per pensare che il sistema di verifica significhi di fatto un "divieto", mentre non è così. Per quanto riguarda l'Italia poi hanno probabilmente giocato anche le prospettive economiche: se un'azienda in difficoltà opera in un mercato in contrazione, con tassazione elevata e non si vedono vie d'uscita, è più improbabile che un investitore strategico specie da così lontano decida di metterci dei soldi. Strano che qualcuno abbia potuto pensare il contrario.
A fronte di questo calo generalizzato degli investimenti da Cina verso Europa, la sorpresa del 2020 è stata invece una forte ripresa degli investimenti esteri in Cina, che nel secondo semestre hanno superato i livelli del 2019 per chiudersi con un più 6.2% anno su anno (dati MOFCOM).
Oltre agli USA, Germania, Olanda (dove però hanno sede legale molte multinazionali europee) e Regno Unito hanno fatto la parte del leone, dimostrazione che quelle aziende medio-grandi con una struttura già presente in Cina sono riuscite ad ovviare anche alle notevoli restrizioni ai viaggi. I dati positivi di crescita della Cina, l'apertura di più settori all'investimento straniero a partire da gennaio e la semplificazione burocratica portata dalla Foreign Investment Law hanno contribuito a questa crescita.
Quali sono le prospettive? Con il progressivo allentamento delle restrizioni di viaggio nel 2021, i flussi di capitali tra Europa e Cina dovrebbero muoversi ancora più facilmente. Ci si aspetta anche un ulteriore allentamento degli ostacoli creati dallo stesso governo cinese nel 2018 all'uscita di capitali.
Infine, il Comprehensive Agreement on Investment (CAI) i cui contenuti principali sono stati concordati tra UE e Cina a fine 2020, quando sarà ratificato dal Parlamento Europeo darà un'ulteriore spinta agli investimenti esteri in Cina, che si spera le aziende italiane sapranno sfruttare, in quanto oltre alle aperture in alcuni settori chiave, dalla finanza alle telecomunicazioni, alla sanità all'automotive, pone le basi per un reale e benvenuto "level playing field" per le aziende europee nel paese.
Il CAI indirettamente beneficia anche le aziende cinesi in Europa, proibendo ogni tipo di discriminazione, ma non sarà l'elemento fondamentale che porterà l'investitore cinese a riconsiderare il nostro continente. L'Italia in particolare dovrebbe rispondere con una maggiore stabilità politica (che incentiva anche gli investimenti "greenfield", preferiti da tutti i governi del mondo) e allo stesso tempo fornire maggiore chiarezza su quali industrie strategiche il paese voglia veramente mantenere "italiane" e in quali invece è opportuno incentivare gli investimenti dall'estero. (riproduzione riservata)
* avvocato e presidente Easternational