Tra l’Australia e la Cina si sta consumando una dura guerra commerciale, nonostante l'eco minore rispetto a quella Cina e Usa, che per l'Italia potrebbe avere effetti positivi.
Ieri Pechino ha introdotto dazi antidumping del 200% a carico dell’Australia su uno dei prodotti più esportati in Cina: il vino rosso. La criticità nei rapporti con l’Australia risale al febbraio scorso, quando, in piena esplosione e recrudescenza del Covid in Cina, l’Australian Dumping Commission aveva deciso di procrastinare l’estensione dei dazi sui prodotti in alluminio estruso provenienti dalla Cina.
Si era trattato di un'ulteriore escalation nei rapporti tra Camberra e Pechino, raffreddatisi nel 2015 quando il Governo cinese aveva contestato un'infrazione dell’Australia delle regole del WTO circa il divieto imposto agli investimenti cinesi sul fronte delle telecomunicazioni con presunte violazioni delle norme sulla sicurezza nazionale.
Dopo qualche mese l’attività investigativa della Commissione si era allargata ad altri prodotti importati non solo dalla Cina ma anche dal Brasile. Come risposta, anche a seguito dell’irrigidimento del Governo cinese dopo le dichiarazioni del Ministro del commercio estero, Simon Birmingham, sull’origine e diffusione dell’epidemia, fu proibita l’importazione di carne australiana.
Questa alternanza di divieti è sfociata nell’ultima settimana ad provvedimento di divieto di importazione per sei commodities (orzo,zucchero, carbone, legname, aragoste e rame) e all’entrata in vigore del dazio antidumping sul vino rosso.
Con una popolazione di circa trenta milioni di abitanti, l'Australia necessita dei manufatti cinesi, ragione per la quale continua ad importare (+16,6% l'import 1da inizio anno) ma si trova palesemente in difficoltà nell’esportare (solo il 6,64% per il 2020) con un saldo che a fine anno sarà pesantemente negativo. Anche la frutta e i prodotti ittici australiani sono in questi giorni sotto ispezione al porto di Shanghai per decisione della locale dogana.
Le conseguenze delle difficoltà di importare il vino australiano in Cina si potranno valutare tra qualche mese considerando gli stocks attuali presenti nel depositi cinesi. Ma il punto di partenza è chiaro: secondo dati forniti da Verona Fiere, in occasione della nuova edizione del Wine to Asia che si terrà a Shenzhen il 20 e 21 novembre in partneship con Vinitaly, l’Australia nei primi cinque mesi del 2020 è leader assoluto tra i consumatori cinesi con il 38,32% del mercato, nonostante un calo del 24,57% comparato al medesimo periodo dell’anno precedente.
Il vino italiano è in quarta posizione con una quota di mercato del 6,74% e con un calo del 32,60% preceduta dalla Francia e dal Cile, rispettivamente con una quota di mercato del 26,29% e del 13,11%. La Spagna segue con un 6% di quota di mercato.
L' informazione interessante che si evince dai dati è che il prezzo medio di importazione del vino autraliano è in assoluto il più alto dopo la Nuova Zelanda nonostante sia stato finora in esenzione di dazi. Infatti il ChAFTA ( China Australia Free Trade Agreement), sottoscritto tra i due Paesi il 20 dicembre 2015, stabiliva che, a far data dal 1 gennaio 2019, i dazi esistenti dal 14% al 20% venivavo eliminati. Il risultato è che il vino australiano, pur avendo un prezzo d'importazione più alto, all'ingrosso il suo costo era il più concorrenziale e lo stesso vale per i vini cileni, protetti da un altro accordo di libero scambio.
Il prodotto italiano, incluso il vino da pasto, che sullo scaffale ha un costo del 14% maggiore di quello australiano o cileno, paga oltre al dazio del 14% anche una percentuale della consumption tax (10%) e la VAT, la nostra IVA, del 13%. In totale il maggior onere per il vino italiano è del 15,4%. Se poi l’importatore ha un giro di affari inferiore a 100 mila euro non ha nemmeno la possibilità di recuperare la VAT.
Non possiamo d’altronde consolarci con il fatto che l’aliquota del dazio per i vini provenienti dagli Stati Uniti, a seguito delle decisioni di qualche anno fa subisca un’addizionale ulteriore del 40%.
L’evento Wine to Asia dei prossimi giorni, promosso da Vinitaly è, quindi, un’occasione da non lasciarsi sfuggire per spingere sulle esportazioni in Cina, cercando di superare quello che è tradizionalmente il collo di bottiglia del food& beverage italiano, l’aspetto distributivo nell’accezione più ampia, quindi l’importazione, le operazioni doganali, l’etichettattura in cinese e la distribuzione finale. Il che è confermato dal fatto che la maggior parte dei partecipanti all'evento di Shenzhen sono cantine nuove al mercato cinese sul quale si affacciano con la speranza di trovare un distributore.
Poche società italiane hanno costituito nel passato trading distributive in Cina e molti importatori, prevalentemente cinesi o di Hong Kong, hanno già nel proprio portafoglio numerosi marchi. Il canale e-commerce potrebbe aiutare a superare l'impasse, ma il prodotto deve trovarsi in Cina in modo regolare e non può, se non per piccole quantità, seguire la via del cross border, cioè essere importato solo quando viene ordinato.
L’iniziativa live e-commerce “ Ecco l’Italia” ha avuto grande successo. Mi auguro che la prossima edizione includa anche la promozione e la vendita del vino, simbolo di storia e di eccellenza culturale dell'Italia.
*managing director a Shanghai di Savino Del Bene, azienda di trasporti internazionali e logistica. Vive e lavora in Cina da oltre 25 anni