Pechino studia l’apertura di una terza borsa per riportare a casa le aziende quotate all’estero. In particolare, i colossi del Big Tech, approdati a New York, con l’auspicio, inoltre, di diventare nel futuro un polo d’attrazione per le multinazionali con forti interessi nel Paese, come Apple o Tesla. La terza borsa andrebbe così ad affiancarsi a quelle di Shanghai e Shenzhen.
La China Securities Regulatory Commission, l’autorità di vigilanza sui mercati, è già stata incaricata dal governo di studiare il dossier. In campo c’è già l’ipotesi che il progetto possa trovare sede nella capitale Pechino, dove già esiste una piccola borsa dedicata alle pmi, che punta a fare il salto di qualità. Da mesi l’amministrazione locale fa infatti lobby affinché ciò avvenga.
Questa borsa «internazionale» rientra nell’impegno cinese a una maggiore liberalizzazione del proprio mercato dei capitali e sarebbe propedeutico alle ambizioni di internazionalizzazione dello yuan. Sullo sfondo ci sono le tensioni tra Pechino e Washington. La Sec, la Consob statunitense, ha puntato un faro sulle quotate del Dragone, con la minaccia di cancellarle dal listino se non si adeguano agli standard di auditing Usa.
Tra le varie condizioni, inoltre, le società cinesi devono dimostrare di non essere controllate da entità governative e indicare i nomi dei componenti del consiglio di amministrazione iscritti al Partito comunista. La mossa di Pechino va inquadrata anche alla luce dell’ordine emesso dalla passata amministrazione Trump che vieta agli americani di investire in società cinesi con legami troppo stretti con l’apparato militare della Repubblica popolare.
Già negli anni passati i regolatori cinesi hanno attivato strumenti per intercettare i giganti tech, quotati a Wall Street o a Hong Kong, muovendosi attraverso il sistema delle Chinese Depositary Receipt, certificati che sostituiscono le azioni e che consentono la contrattazione sul mercato cinese, e con l’apertura a Shanghai del listino Star, dedicato alle società del settore tecnologico e delle nuove scienze.
Proprio sullo Star, nelle ultime settimane sono state sospese diverse Ipo, almeno 76 nel solo mese di marzo, secondo un’analisi del Financial Times. Una frenata riconducibile allo stop deciso lo scorso novembre dalle autorità cinesi alla maxi doppia quotazione da 37 miliardi di dollari di Ant Group, a Shanghai e Hong Kong.
L’ex colonia britannica, intanto, è diventata l’approdo prescelto delle Big Tech del Dragone per le quotazioni secondarie. A fine marzo Baidu, il dominatore cinese dei motori di ricerca, già quotato sul Nasdaq, ha raccolto quasi 3,1 miliardi di dollari attraverso la quotazione secondaria. Da quando la piazza asiatica ha allentato le proprie regole nel 2018, secondo le stime della società di ricerca Dealogic, una decina di quotate cinesi negli Usa, tra cui Alibaba, NetEase, YumChina, Jd.com, hanno raccolto circa 30 miliardi di dollari a Hong Kong. L’elenco è destinato ad allungarsi. Da ultima alla lista è pronta ad aggiungersi anche Trip.com, società dei servizi di viaggi online, fondato nel 1999 e quotato al Nasdaq nel 2003, che ha fatto domanda lo scorso 6 aprile.
Alla luce di questi numeri la Hong Kong Stock Exchange si sta attrezzando per rafforzare la normativa e ha già presentato alcune proposte. Al momento, infatti, è limitata alle aziende innovative. In futuro il gestore della borsa vuole estendere la possibilità anche alle società dell’industria tradizionale, a condizione che rispondano al principio di un’azione un voto. Le nuove norme dovrebbero inoltre facilitare le imprese cinesi nel passaggio dalla quotazione secondaria a una dual listing primaria. (riproduzione riservata)