Dopo la doccia fredda di questa estate, le big tech cinesi stanno imparando a convivere con le nuove regole del Partito Comunista, riorganizzando le attività domestiche e all'estero. Ant Group, finanziaria onnivora del gruppo Alibaba, che a novembre ha dovuto rinunciare all'ipo da 37 miliardi di dollari per le crescenti pressioni governative, sta facendo da battistrada.
Per la finanziaria si sarebbe riaperta la possibilità del doppio collocamento a Shanghai e Hong Kong, secondo Reuters, ma a patto che nell'azionariato entrino alcune società pubbliche, decise dal governo.
Lo schema sarebbe analogo a quello varato dalle autorità di controllo all'inizio di giugno per il varo di Chongqing Ant Consumer Finance, che gestisce il business dei prestiti al consumo. In quel caso accanto ad Ant con una partecipazione del 50% sono entrati nel capitale altri sei azionisti, tra cui due società finanziarie di proprietà statale, la Nanyang Commercial Bank, una sussidiaria di China Cinda Asset Management, con una quota del 15,01%, mentre China Huarong Asset Management ha sottoscritto il 4,99%.
Lo schema si starebbe ripetendo per l'ingresso di Ant nel settore di analisi dei dati bancari. Alcune società controllate da Pechino sarebbero pronte a entrare nel capitale di una joint venture fintech tra Ant e Zhejiang tourism investment. Ciascuna delle due aziende deterrà il 35% dell'azionariato e tra gli altri soci della newco ci saranno Hangzhou finance&investment e Zhejiang electronic, entrambe di proprietà del governo. L'unico azionista esterno non statale sarà Transfar Group, a cui spetterà il 7% della joint venture.
Il ruolo nell'operazione delle finanziarie dello Zhejiang, una delle regioni più ricche e moderne della Cina, dove è incominciata la scalata politica del presidente Xi Jinping, che ne è stato governatore, fanno pensare che l'operazione abbia avuto l'imprinting presidenziale.
La nuova jv gestirà e sintetizzerà i dati raccolti da Ant per offrire servizi di credit scoring, ovvero di analisi della solvibilità dei creditori. Che la Cina fosse interessata ai dati dei clienti bancari era chiaro da gennaio, quando Pechino ha chiesto alle fintech di condividere le informazioni degli utenti con le agenzie governative controllate dalla Banca centrale nazionale. Proprio la Banca popolare cinese ha rincarato la dose chiedendo agli operatori di credit-scoring di ottenere licenze specifiche per la gestione dei dati.
Parallelamente agli accordi con le autorità di Pechino, Tencent e Alibaba, i due gruppi maggiori del fin tech cinese, stanno spingendo sugli investimenti nei mercati internazionali. Stando ai dati Refinitiv nel primo semestre Alibaba ha investito oltre 420 milioni di euro in società internazionali, a fronte dei 70 milioni del 2020 e dei 163 nel 2019. Nello stesso periodo Tencent ha concluso 34 accordi internazionali, il doppio di quanto fatto nei primi sei mesi dello scorso anno, puntando proprio sulle società di gaming. Strategia dettata dal fatto che la scorsa settimana Pechino ha proibito ai minorenni l'utilizzo dei videogiochi nei giorni scolastici.
A completare il quadro dell'addomesticamento dei colossi del fintech, arriva la notizia che Didi, l'Uber cinese, ha accettato di collaborare con i propri dipendenti alla creazione di un sindacato. L'organizzazione degli impiegati sarà guidata dall'All China Federation of Trade Unions (ACFTU), la federazione controllata dal Partito Comunista.
Bloomberg riferisce che anche Meituan starebbe valutando la possibilità di creare un sindacato, mentre i dipendenti di Alibaba avrebbero richiesto l'autorizzazione per creare un'organizzazione dei lavoratori.
Recentemente le autorità cinesi hanno criticato a più riprese i colossi tecnologici per lo sfruttamento dei lavoratori e hanno incoraggiato l'introduzione di programmi per il «benessere comune». (riproduzione riservata)