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La mappa cinese dei porti europei: da Vado Ligure ad Anversa

Un recente studio di Srm (centro studi collegato a Intesa Sanpaolo) e Alexbank sottolinea come la presenza della Cina tra le principali aree di origine e destinazione del cargo in transito nel Mediterraneo spiega la valenza strategica del Canale di Suez in ottica di Belt and Road Initiative.


25/03/2019 09:39

di Nicola Capuzzo - Class Editori

La Cina è già nei porti italiani

La temuta invasione cinese nei porti italiani ha tenuto banco per settimane in vista dell’arrivo a Roma del presidente della Repubblica Popolare Xi Jinping. Al centro della tempesta gli scali di Genova e Trieste. Conoscitori della materia hanno dibattuto a lungo sull’opportunità di aprire le porte delle infrastrutture portuali al Dragone, dovendo tenere in attenta considerazione i rischi e le opportunità di un eventuale accordo con Pechino. Si è scomodato perfino il Consiglio per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, che ha invitato l’Italia a riflettere bene prima di firmare un documento che sancirebbe di fatto l’adesione al maxi-programma geopolitico della Nuova Via della Seta. C’è addirittura chi ha strillato: «Non svendiamo i porti ai cinesi».
Pochi forse sanno, e qualcuno ha evitato loro di dire, che in realtà la Cina è presente nei porti italiani da decenni; prima con i propri traffici commerciali, poi con le proprie navi e da molto tempo anche con una presenza diretta in banchina. Oggi il braccio armatoriale della Repubblica Popolare, ossia la compagnia di navigazione Cosco, è nel capitale del nuovo terminal container di Vado Ligure (Savona) a braccetto con il porto di Qingdao per una partecipazione azionaria complessiva del 49%. Il restante 51% è dei danesi di Maersk, che non hanno alcuna intenzione di cedere la maggioranza di un’infrastruttura che a regime sarà capace di movimentare quasi 1 milione di container Teu.

Fino al 2016 sempre Cosco era socia al 50% del terminal Conateco di Napoli, che ha poi deciso di lasciare (cedendo la quota al partner Msc di Gianluigi Aponte) perché non consentiva l’ingresso delle navi portacontainer di ultima generazione a causa dei fondali poco profondi, degli accosti in banchina e delle gru inadatte. Destino simile era toccato al porto di Taranto, di cui la cinese Hutchison controllava il 50% del capitale ma quando il vettore marittimo taiwanese Evergreen aveva cambiato scalo, propendendo per il Pireo, per trasbordare i suoi container nel Mediterraneo, il terminal è rimasto vuoto e i cinesi sono anche in quel caso fuggiti. Cosco per anni ha cercato di trovare spazio nei terminal container italiani più pregiati, quelli in grado di accogliere le grandi navi oceaniche, ma invano, se si esclude il caso recente di Vado Ligure. Proprio per questo motivo nel 2009 i cinesi hanno iniziato a investire sul porto greco del Pireo, dove sono concessionari (e non proprietari) delle banchine fino al 2052 in cambio di investimenti per mezzo miliardo di euro. In pochi anni Cosco ha fatto di questo porto il proprio hub per le linee che transitano nel Mediterraneo e i traffici hanno iniziato a lievitare.


«In Grecia il gruppo ha mostrato per la prima volta quali sono le potenzialità del progetto Belt and Road Initiative perché i container movimentati sono passati dai 680.000 Teu dal 2010 ai 3,5 milioni del 2017, quando sono attraccate in totale 600 navi. «Il budget per il 2018 è molto ambizioso e traguarda i 5 milioni di Teu», diceva un anno fa a MF-Milano Finanza Marco Donati, al vertice di Cosco Shipping in Italia. L’anno scorso lo scalo ha chiuso in effetti con oltre 4,9 milioni di Teu movimentati. Dal Pireo vengono effettuati almeno dieci treni-blocco ogni settimana verso Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Serbia; lo stesso i cinesi cercheranno di fare dalla Liguria penetrando verso i bacini produttivi della Svizzera e del sud della Germania attraverso Vado Ligure. Medesimo progetto verrà attuato a Trieste se effettivamente China Merchants rileverà il nuovo terminal portuale ribattezzato Piattaforma Multipurpose e in via di completamento.


Tutto questo a dimostrazione che la Cina nei porti italiani c’è già da tempo e ha le idee chiare su dove vuole arrivare e in che modo (attraverso quali scali) intende farlo. La firma di un Memorandum of Understanding a Roma può solo in minima parte accelerare o rallentare questo percorso di penetrazione già ben avviato. Senza contare poi che l’Italia, anche se decidesse politicamente di ostacolare l’avanzata della Belt and Road Initiative, vedrebbe la propria azione neutralizzata dal fatto che la Cina è già presente con partecipazioni azionarie rilevanti (quando non di controllo) nei terminal container di Zeebrugge e Anversa in Belgio, Amburgo in Germania, Bilbao e Valencia in Spagna, Marsiglia in Francia, Malta, Ambalri in Turchia, Haifa e Ashod in Israele e all’imboccatura mediterranea del canale di Suez.


Un recente studio di Srm (centro studi collegato a Intesa Sanpaolo) e Alexbank sottolinea a questo proposito che la presenza della Cina tra le principali aree di origine e destinazione del cargo in transito nel Mediterraneo spiega la valenza strategica del Canale di Suez in ottica di Belt and Road Initiative. «I Paesi del Nord Africa rappresentano l’area cardine nel quadro della Bri», sostiene l’analisi. «Su di essi la Cina punta come area di produzione per i mercati europei, come porta logistica per l’Europa e l’Africa sub-sahariana, come polo energetico per il petrolio, il gas e le energie rinnovabili». Figurarsi se un Memorandum of Understanding può ormai cambiare le sorti della penetrazione cinese nel Mediterraneo e da lì in Europa e Africa. (riproduzione riservata)


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