La presentazione del Position Paper della Camera di Commercio Europea in Cina, di cui quest’anno ricorre il ventennale della fondazione, ha fatto emergere ancora una volta la discrasia tra i desiderata delle aziende associate e quello che invece risulta, se non di ostacolo ma di delimitazione del perimetro per le attività finanziarie, di produzione e logistiche sul mercato cinese.
L'incontro a Shanghai il 23 settembre scorso, curato ed organizzato da Carlo D’Andrea, avvocato, vicepresidente in carica della Chamber di Shanghai, presenti il Console Generale Michele Cecchi e il rappresentante dell'Ice Massimiliano Tremiterra con l'ambasciatore Luca Ferrari collegato da Pechino, è stato una summa positiva del sentiment delle aziende italiane in questa fase.
A Shanghai la consistenza di entità a capitale straniero (FDI non solo europeo) è imponente: si calcola in 87.300 aziende ed il loro fatturato corrisponde al 25% del pil della Municipalità con un impatto del 33% di Corporate e Individual Income Tax rispetto al totale incamerato. Di questo entrate solo una parte rimane in gestione a Shanghai mentre il resto viene trasferito al governo centrale.
Le aziende a capitale straniero hanno un output industriale del 30% rispetto alle locali attività produttive e di servizi ed il tutto viene gestito con l’11% della forza lavoro impegnata nella Municipalità.
Questi dati di partenza non giustificano che vi siano le disparità di trattamento ma non stabiliscono nemmeno che vi sia un obbligo da parte del Governo cinese di ottemperare a tutte le richieste che provengano da questa platea di imprese.
Situazione completamente differente per la presenza delle banche ed istituti finanziari stranieri che, rispetto al territorio cinese, rappresentano solo una percentuale di 1,6% del totale market share dove le quattro maggiori banche cinesi controllano il mercato locale.
In questo contesto si innestano due domande. La prima è come si concilia la politica della “dual circulation” con le peculiarità delle aziende straniere; la seconda riguarda il fatto che, essendo la Cina in questo momento (e lo sarà quasi certamente per tutto il 2021 ) l’unico Paese al mondo Covid free, insieme alla piccola Finlandia, per le aziende straniere e, in particolare, europee, rimane l’unico porto di attracco come è ben emerso dal round table con i managers presenti all’incontro.
Infatti i rappresentanti di aziende con un fatturato medio grande si sono detti soddisfatti dei risultati ottenuti nei nove mesi trascorsi e quasi tutte hanno preventivato che raggiungeranno il budget originale se non addirittura lo supereranno mentre le loro rispettive case madri e le business unit dislocate nel mondo stanno segnando il passo.
Diversa è la situazione delle PMI che stanno avendo problemi di liquidità e di accesso al credito nonchè difficoltà afferenti al mancato o ritardato ricevimento dei benefici fiscali e contributivi che il Governo ha stabilito a partire dal mese di febbraio.
Un altro tema molto sensibile è quello relativo alla mobilità del personale e al periodo di quarantena.
Mentre per il primo sono entrate in vigore le nuove normative che facilitano il ritorno in Cina per persone che siano provviste di visto di lavoro e di permesso di residenza (non è più richiesto il fantomatico PU) rimane confermata la quarantena in centri collettivi alias alberghi requisiti dalle autorità sanitarie e parte a casa, ma in alcuni casi vi è stata la disponibilità, grazie ad una sorta di accordo con le autorità locali, di gestire la stessa parzialmente sul luogo di lavoro.
Per quanto concerne il settore logistico, le policies delle Free Trade Zone restano ancora estremamente farraginose e limitative, almeno per Shanghai, nonostante i passi avanti oggettivamente fatti da parte del Governo cinese. (riproduzione riservata)
*managing director a Shanghai di Savino Del Bene, azienda di trasporti internazionali e logistica. Vive e lavora in Cina da oltre 25 anni