Sin dal tempo dell’aspro conflitto commerciale tra la Cina del Presidente Xi e gli Stati Uniti dell’amministrazione Trump, il riferimento a una nuova «guerra fredda» tra i due blocchi è divenuto sempre più comune e frequente.
Di fatto, oltre a essere una caratterizzazione che avvantaggia posizioni favorevoli al conflitto da entrambe le parti, la nozione di una nuova guerra fredda è fuorviante sotto un ventaglio di aspetti diversi: dal presupposto che, a differenza dell’Unione Sovietica, la Cina è inserita nel sistema economico commerciale globale, fino al fatto che Pechino non ha un modello di governance che voglia ufficialmente esportare al di là dei propri confini.
Essendo una potenza economica e non militare, Pechino non presenta al momento né la volontà né la capacità di proporsi come alternativa al ruolo americano di sceriffo del mondo. Mentre i presunti venti di guerra tra Cina e Stati Uniti soffiano solo dall’Oceano Pacifico a quello Indiano, è ciò che accade nel cyberspazio che avrà nel medio-lungo termine le ricadute più severe; a partire da come le aziende dovranno fare affari in un mondo profondamente diviso da sistemi di comunicazione non compatibili e mutualmente esclusivi, sino alle severe ricadute sulla sicurezza nazionale che si prospettano per i Paesi che scelgono tecnologie made in China o viceversa occidentali.
Sino ad oggi, all’eccessiva attenzione prestata all’iniziativa «Belt and Road» cinese non è corrisposto dal punto di vista degli investimenti infrastrutturali un parallelo interesse sul processo «digitalizzazione con caratteristiche cinesi» che sta avvenendo non solo in Europa, con l’acceso dibattito sul 5G e il colosso delle telecomunicazioni Huawei, ma soprattutto nel continente africano e in Medio Oriente.
Si può ben pensare che oggi l’ago della bilancia del confronto scientifico Cina-Usa volga a favore del gigante asiatico. Quello che la Cina ha fatto negli ultimi vent’anni in ambito vuoi scientifico che tecnologico nel settore delle Ict e dell’Intelligenza artificiale (AI) è in effetti impressionante. Vent’anni fa, mentre gli Stati Uniti già conducevano uno sforzo molto sostenuto, pubblico e privato, per esempio nell’AI, sia in termini di ricerca accademica sia di produzione, la Cina era ancora completamente coinvolta in un’attività manifatturiera a basso valore aggiunto e altamente inquinante.
Oggi la Cina è il primo Paese al mondo in termini di pubblicazioni scientifiche e di brevetti nell’AI nonché nelle sue applicazioni di alto livello, quali il riconoscimento di immagini e del parlato o il decision making e le loro applicazioni commerciali; ma soprattutto si va sempre più qualificando come leader nell’industria potenziata dall’AI. Con una attenzione crescente alla sostenibilità e all’ambiente.
Mentre vari Paesi africani o anche medio orientali, come l’Iran, non hanno molte opzioni al di fuori dell’ecosistema digitale cinese, il resto dei Paesi interessati dalla Via della Seta Digitale sta cercando di pesare i vantaggi dell’uso della tecnologia cinese, in potenziale disaccordo con gli sforzi americani per bloccare l’adozione di tali sistemi. Non solo nei Paesi africani, che puntano sui sistemi di comunicazione mobile per il loro sviluppo economico, ma anche per i ricchi Stati del Golfo Persico, l’adozione delle tecnologie Ict cinesi è centrale per sostenere gli sforzi nel trasformare le loro economie basate sulla esportazione di idrocarburi verso un’economia digitale.
Il 5G e la capacità di trasferire dati ad alta velocità ed estrarne il valore sono al centro di questo tipo di bilanciamento che in Europa ha già raggiunto una marcata connotazione politica nelle scelte. Optare tra i giganti cinesi Ict come Huawei e Zte, e i rivali occidentali come Ericsson, Nokia o Cisco, non è solo una scelta di pura efficienza economica ma una questione molto più ampia, dato che la Via della Seta Digitale di Pechino mira a porre la Cina al centro della quarta rivoluzione industriale.
Rivoluzione, questa, che comprende la sicurezza digitale, i servizi di e-commerce e finanziari, l’integrazione delle città intelligenti, i cavi in fibra ottica sottomarini, il sistema di navigazione satellitare Beidou. Per esempio, nel campo della sicurezza digitale, la cinese HikVision è all’avanguardia nei sistemi di telecamere a circuito chiuso e di riconoscimento facciale, che permettono il monitoraggio su larga scala della popolazione, una caratteristica che è stata accolta con favore non solo da regimi autoritari.
Infine, sul piano della tecnologia non è difficile immaginare un forte vantaggio cinese a tempi brevi: a giorni vedremo, come annunciato pochi giorni fa da Wang Chenglu, presidente del settore consumer business software di Huawei, l’ingresso sul mercato del sistema operativo Harmony OS 2.0, con 300 milioni di pezzi prodotti nei prossimi dieci mesi. Il sistema operativo sarà implementato sul chip Qilin (il nome è quello del drago-chimera della leggenda; in occidente traslitterato con Kirin), costruito con una tecnologia a 7 nanometri, di gran lunga più avanzata di quella a 11 nanometri dei giganti americani.
Certo, tuttavia, non è detto che il vantaggio cinese si traduca automaticamente in un beneficio in termini di leadership globale nell’innovazione. Questo perché da un lato il primato nella ricerca in AI non è necessariamente durevole, al contrario non dobbiamo dimenticare che è piuttosto fragile: l’AI non ha ancora basi fondamentali solidissime (non ha una vera teoria che la sostenga) e dunque la spinta in avanti della ricerca accademica è fortissima e gli scenari possono perciò cambiare da un momento all’altro e gli ultimi arrivati possono risultare inaspettatamente vincenti.
D’altro lato, poi, per la Cina puntare a un fortissimo progresso in questi settori porrà il Paese di fronte a scelte cruciali rispetto al suo modello di sviluppo, perché solo garantendosi infrastrutture di ricerca e tecnologiche che sostengano un Paese così grande nel mantenere il primato su un arco lungo di tempo può darle la sicurezza di conservare tale primato. Problema questo che gli Stati Uniti, dove una robusta industria elettronica opera da anni in questo tipo di regime, non dovranno affrontare.
Inoltre, l’AI richiede sì personale tecnico-scientifico di alta qualità, che la Cina ora ha in misura molto maggiore, ma anche industrie e imprese capaci di sfruttare strategicamente i vantaggi della nuova metodologia (per esempio producendo basi di dati affidabili di alta qualità) e questo il mondo produttivo cinese lo ha ancora in misura assai minore di quello statunitense, ancora una volta per motivi storici. L’ultimo ingrediente è invece a favore del Paese asiatico: il mercato cinese per i prodotti Ict (cellulari, smartphone, tablet, laptop) è molto più vibrante ed esteso di quello americano e il background culturale è tale che l’intero spettro di questi prodotti, come anche dell’AI (da quella cosiddetta debole a quella del livello più avanzato), viene richiesto e rinnovato con vigore.
Un ulteriore fattore da prendere in considerazione è legato alla impellente necessità, in Cina, di un diverso equilibrio nel rapporto tra i settori pubblico e privato dell’alta tecnologia, dato che non solo l’e-commerce ma anche le tecnologie utilizzate dallo stesso governo sono fornite quasi esclusivamente da aziende high tech private locali e anche i Big Data, che sono al centro del sistema di credito sociale individuale, scorrono attraverso le super-app di Alibaba (Alipay) e Tencent (WeChat).
La crescente importanza del settore privato high tech come abilitatore del sistema di credito sociale cinese ha spinto Pechino nell’insolita posizione di dover dipendere da hardware, dati e tecniche di analisi detenuti da aziende sempre più influenti. Benché sia sempre complicato in Cina cercare di divinare dove finisce lo Stato e inizia il settore privato, la massiccia multa di 2,8 miliardi di dollari inflitta ad Alibaba per aver violato le norme anti-monopolio è un avvertimento di ciò che può accadere agli altri giganti high tech cinesi se escono dalle linee guida del Partito comunista cinese.
Ma è nel settore delle città intelligenti che si verificheranno le future più forti collisioni di interessi tra Cina e Stati Uniti. Le città intelligenti richiederanno l’integrazione di sensori cinesi, software analitici per Big Data e AI deboli (quelle incaricate di completare compiti specifici) e questo avrà implicazioni sempre più ampie e critiche per la sicurezza nazionale.
I confini tra la sicurezza nazionale e le infrastrutture civili stanno progressivamente sfumando a causa degli effetti a doppio senso delle tecnologie nonché del ruolo strategico che l’accesso ai Big Data sta giocando nella corsa allo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale. L’ambizione dichiarata della Cina è di diventare una «grande potenza cibernetica» e quanto ciò significhi effettivamente, quando si tratta di accesso ai dati a livello globale, ha già sollevato numerosi, accesi dibattiti tra le aziende private e i rispettivi governi. Dibattiti che spaziano dalla volontà di acquisire sistemi cinesi a prezzi competitivi e le richieste, motivate da ragioni di sicurezza e geopolitiche, che ne precludono l’adozione.
In Europa così come nel resto del mondo, il destreggiarsi tra le offerte tecnologiche e finanziarie della Cina e le esigenze di sicurezza dettate dagli Stati Uniti sta diventando sempre più complesso. Se l’amministrazione Biden mettesse in atto l’intenzione dichiarata di forzare una decisione sui suoi alleati mirata a evitare qualsiasi livello di integrazione con l’ecosistema tecnologico cinese, si verificherebbe il peggio: una drammatica scissione tra ecosistemi digitali.
Verso la fine del suo mandato come Segretario di Stato americano, Mike Pompeo ha cercato di forzare la mano agli alleati, dall’Europa all’Indonesia, a favore del Clean Network Initiative, che chiedeva loro di epurare tutta la tecnologia cinese non solo dai sistemi militari ma anche da quelli civili. Con il cambio di amministrazione negli Stati Uniti, tutti i Paesi che hanno la possibilità economica di differire l’abbraccio digitale cinese stanno tutt’ora valutando le loro opzioni, mentre cercano di capire da che parte soffia il vento.
Un ambito che sarà cruciale per dirimere la questione sarà quello della necessità di adeguarsi a politiche chiare e condivisibili in termini di etica e di regolamenti, tema sul quale entrambe queste due grandi potenze sono davvero carenti.
Questo tema richiederà infatti alla Cina di adeguare il proprio modello politico, spostando in parte quel baricentro generato dal fatto che la quasi totalità di brevetti e scoperte provengono da una università totalmente finanziata dallo Stato, e agli Stati Uniti di educare i suoi utenti e investitori a una visione meno di denaro molto e subito ma di maggiore impegno nella ricerca fondamentale (aperta anche se sviluppata nel privato) con un tasso di attenzione più elevato ai valori collettivi. L’Europa potrebbe in questo assumere un ruolo cruciale di mediatore.
Ma dove la competizione è davvero aperta? Si può dire che ciò oggi è legato soprattutto alla grande sfida della cosiddetta quantum supremacy. Gli Stati Uniti, cui si è accodata l’Europa con il suo progetto Quantum Flagship, hanno imboccato per il computer quantistico, destinato a rivoluzionare in modo profondo e totale il nostro modo di fare calcolo e la sua portata, la strada delle tecnologie a bassissima temperatura dei super-conduttori; la Cina invece ha scelto l’ottica quantistica.
Sarà uno scontro titanico, una battaglia giocata sul campo quasi intangibile delle un po’ misteriose ed elusive leggi della fisica dei quanti; la fisica più inafferrabile e complessa farà da ring per un confronto nel quale si giocheranno le più grandi partite economiche e commerciali, ma anche culturali e di politica dello sviluppo del nuovo millennio.
Dall’Europa al Medio ed Estremo Oriente, risulta necessario prestare una attenzione speciale ai segni premonitori degli effetti che una scissione tra ecosistemi digitali, che divida il mondo della comunicazione e degli affari in due fronti opposti e non comunicanti, non potrà mancare di produrre. In questo caso, il paragone con una «cortina di ferro digitale» sarebbe ben più appropriato rispetto a una generica «guerra fredda». (riproduzione riservata)
* Mario Rasetti, professore emerito di fisica teorica al Politecnico di Torino, professore alla Princeton University, presidente della Fondazione Isi di Torino nonché della Isi global science foundation di New York.
* Alessandro Arduino, principal research fellow presso il MEI - National University of Singapore e co-direttore del Security & Crisis Management International Center», Shanghai Academy of Social Sciences, Cina