Se venissero abolite le dogane tra la maggior parte dei paesi del Continente Nero il pil dell’Africa potrebbe aumentare dall’1 al 3%. Gli Stati africani vogliono commerciare fra loro in maniera più vantaggiosa. Ed è questo il senso dell’accordo di libero scambio stabilito a marzo 2018 sotto l’egida dell’Unione africana (Ua) fondato sulla constatazione che oggi soltanto il 15% delle merci scambiate nel continente africano lo è tra i vari Stati dell’Africa. Un risultato molto al di sotto dell’Asia (61%) e dell’Europa (67%).
Entro i prossimi cinque anni, il commercio intrafricano potrebbe arrivare al 52% secondo il Cnuced con l’attuazione del trattato di libero scambio e l’eliminazione delle dogane tra gli Stati africani del mercato comune. Forse una previsione ottimistica, quella del Cnuced, che dipenderà dalle regole precise dello Zlecaf (acronimo di zona di libero scambio continentale africana) e dall’azione degli Stati per sostenere lo sviluppo delle infrastrutture e rendere il quadro commerciale più attrattivo, eliminando i due freni più importanti in Africa.
La zona di libero scambio continentale africana, Zlecaf, conta ad oggi 52 Stati che hanno firmato sui 55 membri della Ua, e 24 ratifiche. Due in più rispetto alla soglia minima di 22, raggiunta a maggio, per il lancio operativo che sarà confermato al prossimo summit dell’Unione africana domenica 7 luglio, a Niameu, in Niger.
A oggi manca ancora all’appello la Nigeria, peso lordo economico del continente. Nonostante le dichiarazioni favorevoli del ministro delle finanze nigeriano, il governo non ha ancora firmato sotto la pressione delle potenti lobby nazionali che temono la perdita di quote di mercato.
Le trattative si concentreranno sulle barriere tariffarie con l’obiettivo di liberalizzare il 90% dei dazi. Il 10% potrà essere mantenuto su alcuni prodotti sensibili e regolamentati. E questo rinvia al punto chiave delle regole d’origine, secondo l’economista del Cnuced, Milasoa Cherel-Robson, che ne ha fatto il tema centrale del proprio rapporto.
Riguardo le regole d’origine è necessario chiarire i criteri con i quali definire un prodotto africano e per questo avente diritto a essere protetto dai dazi preferenziali. In materia, il Cnuced suggerisce l’adozione di regole flessibili con il duplice obiettivo di stimolare l’import-export e accelerare l’industrializzazione del continente, oggi troppo limitata. Una questione importante se si pensa all’accordo americano che consente un accesso privilegiato al «Made in Africa». Il rischio è di mettere regole troppo stringenti e di fare del protezionismo industriale dal momento che il continente africano dipende ancora molto dall’importazione di input per produrre, secondo il Cnuced.
La posta in gioco è attrarre investitori per sviluppare filiere industriali intra-africane. Le opportunità non mancano, in particolare nell’agricoltura. Se, ad esempio, il 75% del cacao grezzo viene dall’Africa (il 65% dalla Costa d’Avorio e dal Ghana) viene poi trasformato per lopiù fuori dal Continente nero. Un altro esempio riguarda la filiera tessile: il miglior cotone arriva dall’Africa occidentale (Burkina Faso, Mali, Bénin) mentre la produzione tessile e il design sono molto dinamici a Est.
Il report del Cnuced menziona anche l’industria dell’automobile, poco presente nel continente, che potrebbe diventare competitivo e permettere a certi paesi di integrare la catena del valore. In questi progetti l'Italia potrebbe avere un ruolo importante, qualificando, per esempio, i porti meridionali, in particilare quelli della Sicilia, come hub di transhipping per i flussi di merci provenienti dall'Oriente diretti ai paesi della costa sud del Mediterraneo.
Non è difficile immaginare che nella nascente industria automotive in Africa del nord, gran parte dei componenti possa arrivare dall'Europa o dall'Asia, via Suez, per essere poi assemblata nei mercati di sbocco del prodotto.
Un segnale incoraggiante sull’attrattività dell’Africa è l’aumento registrato dal Cnuced degli investimenti diretti stranieri che sono aumentati dell’11% l’anno scorso mentre sono risultati stagnanti a livello mondiale.