La visita del presidente cinese Xi Jinping in Italia a fine marzo rappresenta un'importante conferma dell'attenzione della Cina verso il Paese e in una fase di rallentamento degli investimenti cinesi in Europa è anche un segnale incoraggiante. Xi ricambia la visita del presidente Mattarella esattamente due anni fa in Cina, che ha aperto alla partecipazione del primo ministro Gentiloni, unico tra i leader del G7 al Belt and Road Summit del 2017, la due giorni ad altissimo livello che ha lanciato definitivamente la Bri (belt & road initiative) come marchio della politica estera e commerciale cinese.
Le notizie sugli accordi che verranno firmati durante la visita sono contrastanti, ma uno degli obiettivi dichiarati del governo italiano è quello di capitalizzare anche su quella presenza italiana al Bri Summit del 2017 e concludere con la Cina un accordo per la partecipazione ufficiale dell'Italia a questo enorme progetto.
Come è noto infatti, l'Italia così come molti paesi europei non sono considerati dalla Cina paesi partner della Bri perlomeno a livello ufficiale. Per far ciò è necessario firmare un accordo specifico, che ha preso nomi diversi a seconda del paese coinvolto, ma di solito consiste in un Memorandum of understanding (Mou).
Stando alle notizie che trapelano e agli annunci fatti dal vicepresidente Di Maio dopo la sua visita in Cina nel novembre scorso, proprio di tale Mou si sta parlando. A questo proposito due sono le questioni centrali: che cosa prevede l'Mou in termini di obblighi italiani e che cosa ne avremmo in cambio e, secondo, quali altri paesi europei l'hanno firmato e quali no e perché.
Alla prima domanda non è facile rispondere anche perché le bozze del testo non sono state rese note. Inoltre, gran parte dei documenti firmati finora dalla Cina con un centinaio di paesi non sono stati resi pubblici, tranne quelli firmati dallo stato di Victoria in Australia e dalla Lettonia.
In questi due casi gli accordi spaziano da concetti come "coordinamento nelle politiche" a "connettività dei trasporti" e sviluppo congiunto di particolari aree (incluso, con la Lettonia, nel Mar Adriatico…), la "rimozione di ostacoli al commercio" (questo però da noi è di competenza esclusiva UE), "l'integrazione finanziaria", fino alla "people to people connectivity", cioè la promozione dei contatti tra persone anche attraverso il turismo.
A questi propositi si aggiungono la "creazione di parchi industriali in joint venture" ed altri progetti di investimento nella logistica, così come "progetti comuni di ricerca". Tutto abbastanza generico a prima vista, specie perché l'Mou non ha valore legale vincolante.
Ma il significato politico ovviamente è ben più importante: si accettano le modalità con cui la BRI viene portata avanti e si stabilisce un "coordinamento" per consentirne l'implementazione anche nel paese in questione, cioè in Italia. È opportuno ricordare che alcune di queste modalità sono state oggetto di osservazioni da parte dei paesi UE che, in una mossa quasi senza precedenti, nel giugno 2018 tramite le proprie ambasciate hanno tutti firmato, tranne l'Ungheria, una lettera a Pechino evidenziando questi problemi.
Per quanto riguarda la seconda questione, l'elenco dei paesi membri dell'Unione Europea che sono entrati a far parte ufficiale della BRI è lungo ma non comprende Germania, Francia, Spagna, Olanda, Belgio ed altri paesi membri dell' Europa occidentale e settentrionale. Nemmeno il Regno Unito, che ne sta uscendo. È possibile che questi paesi abbiano ceduto a pressioni americane (gli USA è noto sono abbastanza contrari al progetto), ma anche che abbiano valutato non opportuna la firma di un Mou in una situazione in cui i problemi evidenziati nel giugno 2018 non sembrano ancora risolti.
O infine che ci stiano ancora pensando come si diceva della Spagna fino a qualche mese fa. L'Italia sarebbe il primo dei paesi del G7 e la più grande economia in Europa a firmare un accordo del genere con la Cina. Un passo che andrebbe considerato con estrema attenzione soprattutto per il significato politico che assumerebbe, proprio in un momento in cui l'Italia è presa tra la tentazione di un allineamento in politica estera ed europea con i paesi di Visegrad (tutti firmatari dell'Mou) e la realtà di legami storici politici ed economici più forti con l'Europa occidentale e con gli USA.
Un passo quindi che andrebbe fatto solo se ci sono immediati e concreti benefici per l'economia italiana. Questi a mio avviso possono derivare, più che da investimenti nelle nostre infrastrutture che, se convenienti economicamente, avverrebbero comunque, da una apertura reale alle aziende italiane nel settore degli appalti pubblici cinesi e delle forniture in paesi terzi per progetti Bri.
Non è affatto semplice: l'Unione Europea sta negoziando da cinque anni un accordo con la Cina per l'apertura di un mercato notoriamente difficile per gli investitori stranieri e sta avendo non poche difficoltà a portarlo a conclusione. Ha anche cercato di tracciare linee guida condivise con la Cina sugli investimenti infrastrutturali della BRI che toccano l'Europa, creando lo EU-China Connectivity Network, ma la UE non ha competenza esclusiva su tali materie che invece condivide con i paesi membri.
La stessa Camera di Commercio della UE in Cina, voce delle aziende europee operanti nel paese ha suggerito che i vari MOU firmati tra i vari paesi europei e la Cina adottino perlomeno un contenuto identico per evitare competizione al ribasso tra i paesi membri. Cosa che finora non è avvenuta. In questo scenario, non è facile per l'Italia spuntare condizioni di particolare favore per le nostre aziende; tutto dipenderà dalla capacità dei negoziatori e dalla disponibilità della controparte.