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Politica

JP Morgan vede il pil cinese in contrazione al 4% a medio termine

Lo ha sostenuto Haibin Zhu, capo economista della banca americana, in una conference a Shanghai, la settimana scorsa, a causa del deciso calo di investimenti fissi nel manufacturing, nell'immobiliare e nelle infrastrutture. Anche i consumi restano fiacchi spinti in basso dalle vendite in calo di auto. E sull'export pesa la guerra dei dazi


27/08/2019 18:22

di Marco Leporati*

zhu
Haibin Zhu, capo economista di JP Morgan

Dalla Trade war alla Cold war: è la drammatica realtà che si sta disvelando nella sua forma più profonda nei rapporti tra Stati Uniti e Cina con il conseguente condizionamento sull’economia mondiale.

Nella giornata di venerdi della settimana scorsa l’ultima mossa da parte della Cina è stata quella di annunciare ulteriori dazi in importazione per un valore di 300 miliardi di dollari come risposta alle recenti decisioni di Trump di innalzare i dazi a partire dal primo di settembre di un altro 10%.

E nella medesima giornata l’AmCham di Shanghai ovvero la Camera di Commercio Americana in Cina che raggruppa tutte le più importanti aziende americane di base in Cina, ha organizzato un seminario il cui speaker era Haibin Zhu, capo economista della banca JP Morgan nonchè responsabile delle strategie di investimento sui titoli azionari cinesi.

Zhu ha ben argomentato attraverso una serie di slides molto significative (di cui mi ha dato copia durante una breve conversazione) una tematica molto delicata facendo una distinzione tra i dati che fotografano l’attuale situazione ed i dati prospettici relativi al futuro che possono mutare ragionevolmente se muta il contesto.

L’ipotesi di Zhu è che, alla luce di alcuni indicatori di base, il pil cinese non potrà recuperare i livelli su cui si era assestato negli anni precedenti ma le stime prevedono un valore del 4% o inferiore entro il 2030. Questo primo dato è influenzato da tre elementi, manufacturing, infrastructure e real estate che rappresentano quasi l'85% del pil cinese, nella seguente proporzione, 35% dal manifacturing, e il 25% ognuno a immobiliare e infrastrutture.

 A partire dal 2010/ 2013 questi tre fattori, due dipendenti soprattutto dal settore privato o dalle SOE (State Own Companies) e quello delle infrastrutture dal pubblico, con varie alternanze, sono in diminuzione. La ragione che sottende a questa decrescita negli investimenti fissi, per quanto riguarda l’industria, va cercato nel calo di redditività (PPI o Producer price index) di quegli investimenti, quindi nella minor convenienza a investire.

Sul fronte consumi i diagrammi rivelano un trend, a partire dal 2013, in tendenza decrescente con alcune picchi in salita nel 2018 e nel primo semestre del 2019 ma, considerando che il mercato dell’auto pesa per il 10% sui consumi, i dati del 2019 portano ad accentuare la decrescita anche dovuta al mancato successo delle vendite dell’auto elettrica (- 4,7%) e le nuove normative sugli standars delle emissioni, in vigore da luglio, che hanno accellerato le vendite fino a giugno bilanciando una diminuzione in questi ultimi due mesi.

Per contrastare questa tendenza, recentemente il Governo Centrale e la PBOC hanno modificato la struttura dei prestiti e del relativo interesse; oggi il LPR ( Loan Prime Rate ) per i prestiti di un anno o cinque anni viene deciso  dalla Banca Centrale sulla base di un feed back che diciotto banche prescelte sia domestiche che internazionali forniscono mensilmente. In sintesi si è modificato “ il sentiment “.

Nel capitolo export, quello che condiziona maggiormente le nostre attività, la situazione non si presta ad alcuna schiarita. Sarà interessante ascoltare i rappresentanti del Governo americano-se confermata la presenza - alla prossima edizione del CIFIT ( China International Investement and Trade Fair) che si terrà a Xiamen nel prossimo 8 settembre. Con le ultime decisioni da parte di USA e Cina le transazioni commerciali tra i due Paesi sono ormai in difficoltà anche se è rimasto un piccolo spiraglio per i regali natalizi dei consumatori americani.

In questo momento i prodotti importati in USA di non provenienza cinese sono stati sostituiti da quelli di altri Paesi, in primo luogo Vietnam e Filippine. Ma vi è un settore  dove gli Stati Uniti soffriranno ed è quello del Machinery ed Equipment, dove la Cina aveva una quota di mercato pari circa al 20% e che non avrà possibilità di sostituzione con importazioni da altri Paesi, Europa inclusa.

Sul fronte dei rapporti tra i due Paesi Mr. Zhu ha fatto presente che oggi non esiste un mutua fiducia tra le parti ed è difficile pensare una soluzione tante volte conclamata di “ win-win“. Sicuramente si dovrà arrivare ad una situazione di “win-loose “. Ma, a quel punto, la Cina dovrà trovare una soluzione per uscire dall'impasse.

In un mio precedente articolo relativo all’Asia Forum di Bo’ao avevo menzionato la sezione 301 che permette al Presidente americano in carica di intraprendere azioni autonome all’interno della Commissione del WTO. Questa soluzione è stata nuovamente citata da Zhu cosi pure il paragone con la fine dell’accordo di Bretton Woods nell’agosto del 1971.

Thomas Friedman, autorevole inviato del New York Times, ha sostenuto  a tal riguardo: “Se qualcuno ha idee migliori le tiri fuori.Se pure non amavamo quello che avevamo, certo non ci piacerà quello che avremo”.

Non sono considerazioni positive ma rappresentano un’opinione che proviene da un osservatorio privilegiato e di cui si deve tenere conto per trasformare i vincoli in opportunità.

* managing director a Shanghai di Savino Del Bene, azienda di trasporti internazionali e logistica. Vive e lavora in Cina da oltre 25 anni.

 


 


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