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Politica

L'Argentina si smarca dal dollaro, con la Cina si regolerà in yuan

Il paese, fortemente indebitato e sotto osservazione del Fondo Monetario, spera così di ottenere una maggiore stabilità finanziaria puntando sul supporto cinese nelle operazioni di swap in valuta. Ma la mossa potrebbe essere prodromica all'introduzione del Sur, una moneta unica sudamericana


02/05/2023 15:54

di Marco Leporati*

settimanale
Sergio Massa, ministro argentino dell’Economia

A partire da questo mese il governo argentino utilizzerà per le transazioni finanziarie con la Cina il renmimbi in luogo della valuta americana. La decisione è stata pubblicata giovedì scorso dall’account ufficiale di Wechat dell’Ambasciata cinese in Argentina riprendendo la dichiarazione del Ministro argentino dell’Economia Sergio Massa.

L’ammontare del valore transattivo mensile dovrebbe essere pari a circa 800 milioni di dollari per un totale di 4.5 miliardi di dollari nell’arco dei prossimi mesi. Zou Xiaoli, Ambasciatore cinese in Argentina ha plaudito a questa decisione che può aiutare l’Argentina, Paese fortemente indebitato e sotto osservazione da parte del Fondo Monetario internazionale, a mantenere una stabilità finanziaria con la Cina che può offrire un supporto nelle operazioni di swap in valuta.

Questa parziale azione concreta di svincolo dal dollaro statunitense potrebbe dar seguito ad un ulteriore passaggio per la creazione di quella possibile nuova moneta sudamericana – Sur - immaginata durante la settima conferenza CELAC (Comunitad de Estados Latinos Americanos y Caribenos), tenutasi ad inizio anno in Messico con Argentina e Brasile che rappresentavano i Paesi più determinati per il nuovo assetto finanziario.

Tra le diverse alleanze originate da stipule di trattati (Asean e RCEP) o da ragioni di strategia geopolitica (QUAD, AUKUS), una deve essere ripresa in considerazione in quanto messa in secondo piano nell’ultimo triennio: l’alleanza BRICS che raggruppa cinque Paesi: Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa. Nata nel 2001 tra i primi quattro Paesi cui si è aggiunto il Sud Africa nel 2010, con il 41% della popolazione mondiale ed il 16% del commercio mondiale oggi supera, come contributo al GDP mondiale del 31,5%, il gruppo del G7 al 30,7%.

A questo riguardo si spiega anche la visita che Lula, premier brasiliano, ha avuto nel corso del suo viaggio in Cina, presso la New Development Bank con sede a Shanghai, istituzione finanziaria creata dall’alleanza BRICS la cui ceo, Dilma Rousseff, in passato era stata presidente della Repubblica Federale brasiliana.

Nel corso di questo incontro Lula si è posto la dirompente  domanda :«Chi ha deciso che il dollaro era la valuta per il commercio dopo la fine della parità con l’oro? Abbiamo bisogno di una valuta che dia ai Paesi del BRICS più calma perchè oggi ciascun Paese necessita, dopo la corsa del dollaro, di essere nelle condizioni di esportare e perchè non con la propria valuta?»

Questo silenzioso movimento è importante per comprendere cosa sta avvenendo sul fronte mondiale delle valute: dagli accordi di Bretton Woods del 1944 con i quali si stabiliva una visione dollaro-centrica correlata al valore dell’oro (gold exchange standard) e un sottostante cambio stabile si passava al 1971 con il Smithsonian Agreement che annunciava il cambio flessibile sino ai nostri giorni dove, seppur le transazioni commerciali internazionali e il prezzo delle materie prime e delle altre principali commodities siano subordinate al dollaro statunitense, iniziano a travalicare i confini cinesi i pagamenti effettuati attraverso il renminbi digitale adottato dalla Banca Centrale cinese per la Digital Currency.

La Cina, cambiando la storia della moneta, aveva introdotto, durante la Dinastia Song, per la prima volta la cartamoneta nel 1085 d.C., denominata allora Jaozi che significa scambio-commercio, stampata in fabbriche imperiali disseminate a Chengdu e a Hangzhou come ne da conto Marco Polo nel suo Milione. Mille anni sono passati e oggi si parla di “de-dollarizzazione”.

Un altro aspetto importante è quello relativo a centoventi Paesi che sono per varie ragioni connessi in maniera più o meno subordinata alla Cina e alla BRI (Belt and Road Initiative) o Via della Seta di cui quest’anno ricorre il decimo anniversario dalla fondazione.

L’assunto da cui partire per comprendere meglio l’entità di questo fenomeno è il fatto che i Paesi di questo conglomerato afro sudamericano sono i principali fornitori di materie prime o meglio di terre rare di cui la Cina è il principale consumatore: del litio per la produzione di batterie per i veicoli elettrici se ne già parlato a più riprese, ma non bisogna dimenticare il cobalto oltre all’elenco contenuto nella tavola di Mendeleev che ne raggruppa 120. Siamo di fronte a un regime di monopsonio ovvero rispetto ad un numero illimitato di fornitori di beni vi è un solo compratore, la Cina che ha facoltà di decidere di utilizzare per i pagamenti la propria valuta.

Indirettamente anche il debito estero con gli Stati Uniti in dollari statunitensi di cui Cina e Giappone sono le principali controparti sta diminuendo: nell’ultimo periodo vi è stata una diminuzione pari a 400 miliardi di dollari americani. Da parte americana si afferma che vi è più fumo che fuoco in quanto le transazioni in dollari incluse le riserve valgono ancora l’89% ed il 43% solo per le transazioni in dollari statunitensi. Ma l’indebolimento con un attacco ai fianchi del sistema americano non si può negare.

Attualmente i tre fronti alleati con la Cina sono l’area sudamericana, l’area africana ed il sud est asiatico che con il Rcep sta crescendo a livello di scambi in modo considerevole: è di qualche giorno fa la notizia che le Filippine hanno aderito al trattato in aggiunta agli altri Paesi che l’avevano sottoscritto nel 2021.

La Bri per l’Africa ed i Paesi medioorientali sino ad arrivare ai confini europei con qualche paese quale l’Ungheria con una propensione profonda ad accettare investimenti cinesi; la Rcep per l’Estremo Oriente e gli accordi programmatici con gli Stati sudamericani: in questa cornice la Cina può dispiegare liberamente le proprie azioni. Europa e Stati Uniti rappresentano ancora un baluardo a fronte di questo movimento magmatico ma tutto deve essere valutato in prospettiva.

La Cina in questo momento di post covid ha una lista di situazioni critiche che forse si risolveranno in tutto o in parte. Ma la capacità di autorigenerarsi fa parte del suo DNA di cinquemila anni di storia.

Si è citato la dinastia Song (960- 1269 d.c) che con il suo periodo di dominio aveva portato la Cina a un livello di innovazione molto elevato  supportato da tecniche di gestione amministrativa dello Stato  inimmaginabile per l’Europa di quel tempo: «Per la maggior parte degli aspetti, la Cina dell’XI secolo era a un livelllo di sviluppo economico che non fu raggiunto da alcuno stato europeo prima del XVIII come minimo”. (Charles O. Hucker, Il passato imperiale della Cina. Londra 1975). Considerazione su cui riflettere. (riproduzione riservata)

*presidente di Savino del Bene Shanghai Co. Vive e lavora a Shanghai da 30 anni 


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