Da circa 15 anni le imprese europee in Cina producono un "position paper" annuale che descrive le difficoltà delle aziende straniere operanti nel paese e propone alcune soluzioni.
I problemi sul tavolo sono noti: accesso al mercato, trasferimenti di tecnologia, trattamento non equo negli appalti pubblici, problemi di omologazione e standard diversi decisi spesso in maniera unilaterale sono alcuni dei refrain che si ripetono da tempo.
Anche se le cose sono migliorate abbastanza negli ultimi anni e il CAI, l'accordo bilaterale sugli investimenti ora però congelato dal Parlamento Europeo, risolverebbe una buona metà dei problemi per le aziende europee, la convinzione generale resta che le aziende europee siano trattate in maniera meno favorevole di quelle cinesi sul mercato europeo.
Ma è davvero così? Pare di no. Nel 2020, la Camera di Commercio Cinese in Unione Europea un organismo di recente formazione, ha avviato il dibattito attraverso un documento molto interessante che sintetizza la visione delle aziende cinesi operanti sul mercato europeo. È un documento molto più breve di quello analogo prodotto dalla Camera di Commercio UE in Cina, ma non meno interessante.
Cominciamo con alcuni dati: le aziende cinesi hanno una presenza molto più ridotta e storicamente più breve di quelle europee in Cina. Il fatturato prodotto in Europa dalle aziende cinesi nel decennio 2010-2020 è stato di circa 1,2 trilioni di euro, a fronte di un fatturato per lo stesso periodo prodotto in Cina da aziende europee di 3.1 trilioni, quasi due volte e mezzo.
Allo stesso tempo, l'interconnessione anche logistica tra le due economie - con un potenziale aggregato di 1,9 miliardi di consumatori - continua, anche grazie all'aumento esponenziale dei collegamenti merci via treno.
Dal rapporto emerge che le aziende cinesi guardano alla loro presenza nel mercato europeo con un occhio di lungo termine, apprezzano le mosse fatte dalla UE per la ripresa economica post-Covid e sottolineano anche che lato infrastrutture la situazione è migliorata nettamente così anche come l'ambiente generale per le attività di ricerca e sviluppo.
Il 60% indica che è pronto ad investire di più in Europa (con il 20% che lo farebbe in maniera "significativa"), creando quindi nuove opportunità di lavoro. Allo stesso tempo però il 60% ha indicato un leggero peggioramento dell'ambiente per gli affari in Europa con un 10% che considera tale peggioramento significativo.
Tra le cause, oltre alla questione generale della pandemia che ha impattato anche le aziende cinesi, ve ne sono soprattutto quattro:
(a) Le normative sul settore telecomunicazioni che sembrano strutturate in maniera discriminatoria a danno di aziende cinesi come Huawei e ZTE (società che, ricorda il rapporto, sono presenti in Europa da molti anni e hanno creato più di 20.000 posti di lavoro diretti). Escludere le aziende cinesi dalla transizione digitale, secondo il rapporto, riduce le opportunità anche per le aziende europee e la minore competizione impatta negativamente su efficienza ed innovazione.
(b) Le difformità degli standard per l'omologazione di prodotti anche in settori dove le aziende cinesi sono all'avanguardia, come quello delle tecnologie "verdi" (dalle energie rinnovabili all'elettrico) che di fatto creano barriere all'ingresso.
(c) La legislazione europea che si applica ad investimenti da extra UE, già complessa di per se a causa di una normativa antitrust molto elaborata, si è arricchita di ulteriori strumenti che vanno a regolamentare le acquisizioni e l'uso di "sussidi statali" anche nei contratti di appalto. Questi strumenti impattano sulle aziende cinesi specie quelle di Stato; in generale, il rapporto ritiene che ci sia una incomprensione sulla natura e il ruolo delle aziende di queste ultime. Sul punto, effettivamente, c'è spesso confusione sulla natura delle imprese cinesi a proprietà statale, che solo in pochi casi sono legate al governo centrale, mentre più spesso sono simili alle nostre "municipalizzate".
d) In generale, il rapporto evidenzia forme iniziali di protezionismo commerciale lato europeo che stonano invece con le aperture cinesi nel settore degli investimenti diretti con la riduzione di due terzi delle varie "negative list" (le liste di settori in cui investimenti stranieri non sono consentiti) e la nuova Foreign Investment Law entrata in vigore nel 2020. Il timore che, mentre le restrizioni che restano in Cina sono applicate a tutte le aziende straniere senza distinzione, quelle europee saranno dirette principalmente agli investitori cinesi, è appena accennato nel rapporto, ma reale.
Sarebbe bene ascoltare queste preoccupazioni, se non altro perché in un mondo interconnesso e con un'economia cinese sempre più fondamentale per la crescita globale, è necessario che i capitali possano essere allocati nel modo più utile alla crescita delle aziende. (riproduzione riservata)
* avvocato, partner di Baker & McKenzie e presidente Easternational