MENU
Politica

Le aziende cinesi si ricollocano per non perdere l'export Usa

Uno degli effetti della guerra dei dazi, che al momento sembra dover continuare a lungo, è che grandi imprese del Dragone che esportano molto negli Stati Uniti stanno progettando di aprire attività fuori dalla Cina per aggirare le barriere doganali. I settori tessile e quello dell'arredamento sono tra i primi a muoversi, con costi ma anche benefici


07/08/2019 12:42

di Marco Leporati*

divani
I fabbricanti cinesi di divani sono tra i primi che stanno ricollocando per evitare i dazi Usa

Nell’incertezza dello scenario mondiale connesso alla trade war senza, al momento, soluzioni di uscita, il fenomeno industrial relocation anche e, forse, soprattutto tra le imprese cinesi si sta accentuando, a distanza di qualche mese.

L’imprenditorialità cinese ,nella sua accezione più ampia,si è caratterizzata da quando è uscita dalla crisalide degli anni novanta per una estrema praticità, con exit plans veloci: dal piccolo negozio alla grande azienda, se il business non funzionava come previsto e sperato dopo qualche mese o anno dalla apertura, l’attività veniva chiusa.

Quante volte passando in alcune vie, nei mall o nei building office dove sei mesi prima si era notata l’attività frenetica dei decorators, come vengono qualificate le imprese di ristrutturazione di interni, si ripassava e il locale era sgombro oppure in procinto di essere rifatto con il cartello opening soon.

Per le aziende le decisioni erano più lunghe ma il finale lo stesso. Questa situazione atteneva prevalentemente il mercato domestico;ora invece il quadro di riferimento sta mutando e le imprese cinesi si stanno muovendo per ricreare nuove opportunità all’estero.

In un mio precedente articolo di fine maggio ponevo l’attenzione sulle società multinazionali di cui peraltro, alcune di esse, hanno confermato la decisione di delocalizzarsi in altri Paesi. Qui si parla invece di imprese cinesi e di società di consulenza, trasporto e relocation che stanno nascendo a supporto di coloro che hanno deciso di investire all’estero con il convincimento e la persuasione che non si può più attendere.

Nessuno degli analisti qualificati, dopo l’ultimo incontro di mercoledì scorso a Shanghai tra le due delegazioni Cina e Usa, ha percepito un minimo spiraglio di soluzione anche perchè, seppur la Cina abbia deciso di ricominciare ad approvvigionarsi della soia americana, il presidente Trump, per tutta risposta, ha sottoposto una lunga lista di prodotti cinesi a un dazio addizionale del 10% a partire dal primo settembre.

Va ricordato che il termine trade war era già stato usato rispettivamente nel gennaio 1994 e gennaio1995 nei titoli della China South Morning Post, quotidiano edito ad Hong Kong, quando durante la presidenza Clinton gli Stati Uniti avevano imposto alla Cina tariffe punitive per 2 miliardi di dollari sulle  quote esistenti nel periodo pre WTO, per i prodotti tessili,  a fronte dei reiterati inviti alla Cina stessa di combattere la pirateria nella produzione di CD e software in ottemperanza alle regole sulla difesa della proprietà intellettuale (intellectual property rights, ipr).

E’ comprensibile che società che esportano negli Stati Uniti i due terzi della loro produzione, dopo più di un anno, abbiano dovuto decidere, obtorto collo, soluzioni alternative. A questo riguardo uno dei settori maggiormente penalizzato è quello dell’arredamento, in particolare chi produce salotti e divani.

Una delle possibili chiavi di lettura è da una lato nelle recenti affermazioni di Trump sulla posizione della Cina nel WTO, ipotesi non nuova e già ventilata lo scorso marzo al forum asiatico di Boa’o, la Davos cinese, dall’altra, sull’azione che il Governo cinese sta predisponendo per l’approvazzione entro fine anno del Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) ai paesi Asean, che si contrappone alla Trans Pacific Parnership (Tpp) proposto dagli Usa agli stessi paesi dell’Asean, che lo hanno firmato nel novembre del 2017, ad esclusione della Cina

Il Tpp non ha avuto un concreto seguito. Qualche dubbio per la firma sta sorgendo dall’India che vorrebbe proporsi come luogo di mediazione visto che molte imprese cinese si stanno rivolgendo a questo Paese e per le nuove start ups solo l’anno scorso sono stati investiti 2,5 miliardi di dollari da Tencent Holding, Fosun International,Xiaomi e Shunwei Capital.

Alla Texworld Usa, fiera specializzata nell’industria tessile, tenutasi recentemente a New York, vi ha partecipato una cospicua delegazione di imprese cinese, che hanno esplorato nuove opportunità per essere competitivi ma soprattutto per poter esportare nel mercato americano senza ulteriori penalizzazioni per l’aleatorità dei dazi.

Come esistono vincoli per importare in Cina linee di produzione e macchinari usati così non esistono limitazioni ad esportare le stesse linee di produzione cinesi già utilizzate all’estero. Sono, infatti, soggette al divieto solo quelle che hanno brands internazionali sottoposte a contratti di Ipr.

L’altro problema che affiora è la ricollocazione della manodopera in Cina in esuberanza rispetto all’organico impiegato dopo le rilocazioni. Ci sono stati casi di blocco merci ai cancelli nel momento della spedizione ma in genere è stata corrisposta una congrua indennità di fine lavoro che permette di tornare al paese natio dal momento che la forza lavoro prevalente è rappresentata da lavoratori migranti. Per le imprese cinesi che ricollocano il maggiore esborso nelle indennità pagate ai licenziati sarà bilanciato dai minori costi salariali nei paesi dove si ricollocano. Senza dubbio il saldo del profitti e perdite sarà di segno positivo.

* managing director a Shanghai di Savino Del Bene, azienda di trasporti internazionali e logistica. Vive e lavora in Cina da oltre 25 anni.



Chiudi finestra
Accedi