La penuria di carbon fossile in Cina, causata dal rincaro del minerale e dai costi di trasporto, dopo la rottura dei rapporti con l’Australia, uno dei maggiori esportatori di carbone, presenterà il conto alla riapertura delle attività venerdì 8 ottobre, al termine della settimana di festa nazionale per celebrare la fondazione della repubblica.
I primi segnali sono comparsi due settimane fa, prima nella ricca GBA (Greater Bay Area), cioè nel Guangdong, sud della Cina, per poi salire a macchia d’olio verso altre province (venti su trentuno) quali il Jiangsu e lo Zhejiang, centri produttivi per eccellenza.
In altre province nel nord del Paese come lo Heilongjiang, accanto al rallentamento delle attività produttive, vi è stato di pari passo anche l’oscuramento delle città.
Decodificare o almeno tentare di decifrare quanto sta accadendo nel mondo e in Cina relativamente al Climate change in rapporto ai mezzi di produzione e alla inarrestabile domanda di consumo quale parametro della vita sociale ed economica, è complicato.
La consapevolezza di quanto sta avvenendo è più o meno diffusa ma nei fatti i provvedimenti da adottare per limitare il surriscaldamento sono di difficile realizzazione almeno a breve termine.
Le date vengono continuamente aggiornate, e sia per un problema di disponibilità dei finanziamenti (i tanto menzionati 100 miliardi per anno sino al 2025 per il ripristino ambientale) sia per il cambiamento di rotta è difficile immaginare che in qualche anno il mondo intero possa raggiungere un'inversione di tendenza o se non altro un rallentamento dei fenomeni in essere.
L’Opec ha diffuso un comunicato nei giorni scorsi nel quale, a fronte di un fabbisogno odierno di venticinque milioni di barili giornalieri di petrolio, ha dichiarato che entro il 2025 ne saranno necessari cento milioni per giorno: un ossimoro ambientalistico.
La Cina con la più alta percentuale di emissioni di CO2 è a un bivio ma la decisione finale è un’incognita anche se viene reiterato l’obiettivo di riduzione delle emissioni entro il 2030 e la carbon neutrality entro il 2060. A questo riguardo tutti i Paesi sono in attesa di quanto emergerà al Cop 26 di Glasgow, in particolare dalle posizioni di India e Cina.
L’oggettiva ripresa della domanda globale dalla fine dello scorso anno sino ad ora con picchi significativi durante l’estate scorsa ha avuto come risultato maggior inquinamento, forte incremento dei costi delle materie prime e a latere, per ragioni di vario genere intersecatesi esponenzialmente, esplosione dei costi di trasporto marittimi.
Nelle ultime settimane, in Cina si è preso atto della decisione di fermare o diminuire parzialmente la fornitura di energia con una motivazione di per sé in contraddizione: da un lato l’incremento oggettivo dei costi delle fonti energetiche, in primo luogo il carbone, dall’altro la presunta volontà di ripulire l’ambiente in previsione delle Olimpiadi invernali in programma a Pechino il prossimo febbraio, attribuendo lo status ambientale attuale ai governatori locali delle province.
Qualche numero può aiutare la riflessione: il Covid in Cina era esploso a cavallo della ricorrenza del Capodanno cinese 2020; la riapertura doveva avvenire da programmi precovid al 3 febbraio, data che poi è stata posticipata.
Il Centro di Ricerca ed Energia per l’aria pulita di Helsinki aveva rilevato che in Cina durante i dieci giorni successivi alla prima ripresa il livello di biossido di azoto era diminuito del 36% rispetto allo stesso periodo del 2018 e la CO2 si era ridotta di cento milioni di tonnellate.
Se ne deduce che la riduzione del 40% di CO2 derivava dal fermo impianti ed oggi la Cina si trova in questo collo di bottiglia dove la necessità di soddisfare la clientela domestica ed estera confligge con la qualità dell’ambiente.
A questo quadro di riferimento si aggiunge il fatto che le fonti energetiche in tutto il mondo hanno subito un innalzamento di prezzo. Il petrolio è quotato oggi 80 dollari al barile e il gas liquido (LNG) vale 35 dollari/mm Btu sul mercato spot ma raggiunge per le normali forniture 100 dollari per megawattora corrispondente a 190 dollari per barile di petrolio.
Inoltre la Cina ha in questo momento oltre mille centrali a carbone, con la previsione di costruirne altre sulla base di spinte localistiche, il cui fabbisogno era soddisfatto dall’estrazione nelle miniere dello Xianxi e Inner Mongolia ma soprattutto attraverso l’importazione da Stati Uniti e Australia con la quale i rapporti politico commerciali si sono deteriorati nell’agosto 2020, bloccando repentinamente le importazioni.
Il paradosso del maggior costo per unità di prodotto del carbone domestico, rispetto a quello australiano, sta nella supply chain. Infatti dall'Australia, le navi bulk arrivavano nei porti del Guangdong e di Tianjin dove il minerale veniva scaricato in banchina in docks dedicati.
Proprio questi docks dedicati sono stipati di carbone australiano bloccato dall’ottobre scorso per le ragioni di cui sopra. L’ India, che ha anch’essa fame di carbone, ha appena acquistato due milioni di tonnellate di questo carbone in deposito nei porti cinesi dall’Australia ad un prezzo superscontato tra i 12 e i 15 dollari per tonnellata. La Cina sta pagando il proprio carbone estratto in queste settimane a 620 dollari/ tons con un incremento del 45% richiesto dalle miniere dello Xianxi.
Trasportare invece il carbone via treno dalla Mongolia, alla luce del recente incontro tra i rispettivi Ministri del commercio estero o dal nord della Cina verso il sud ha dei costi estremamente elevati con alto rischio di dispersione del materiale durante il tragitto.
Il premier Li Keqiang ha sostenuto che è necessario procurarsi combustibile a qualsiasi prezzo e la competizione rimane alta ed infuocata.
La situazione in Cina è stata complicata dalla siccità che in alcune province ha causato la diminuzione della produzione elettrica nelle centrali per la minor portata delle acque, mentre le fonti alternative rinnovabili hanno ancora una quota di mercato marginale.
Ora bisogna vedere che cosa accadrà alla riapertura delle attività. Se i blackout produttivi dovessero continuare, potrebbero avere ripercussioni occupazionali. In alcuni stabilimenti sono già stati ridotti i salari (in Cina non esiste la cassa integrazione per eventi oggettivi) e vi potrebbero essere licenziamenti che andrebbero a colpire i lavoratori migranti, determinando una situazione in contrapposizione con il concetto di “prosperità condivisa” esposto non più tardi di un mese fa dal Governo centrale e collegato ai provvedimenti relativi i vincoli di acquisto di proprietà residenziali.
La Cina, come gli altri Paesi, si trova nel mezzo di questo guado, impervio da attraversare e “Così oggi, proprio quando si è capito che il surriscaldamento globale è in ogni senso un problema collettivo, l’umanità si trova alla mercé di una cultura dominante che ha estromesso l’idea di collettività dalla politica, dall’economia e anche dalla letteratura”. (Amitav Ghosh, La grande cecità, pag. 91) (riproduzione riservata)
*managing director a Shanghai di Savino Del Bene, azienda di trasporti internazionali e logistica. Vive e lavora in Cina da oltre 25 anni