La presidente del consiglio, Giorgia Meloni, arriva a Pechino che sono trascorsi pochi giorni dalla conclusione del terzo Plenum, che Il Comitato centrale tiene tipicamente sette volte tra i Congressi del Partito, che hanno cadenza quinquennale, e affronta tutti i temi per la riforma a lungo termine del più grande Paese al mondo. È durato tre giorni e vi hanno partecipato oltre 360 membri del Comitato centrale del partito, i maggiori dirigenti politici e militari e i dirigenti delle maggiori aziende statali.
Un vero conclave: infatti i partecipanti si sono chiusi in uno dei più confortevoli alberghi di Pechino per incamerare la più recente dottrina del partito con questo titolo inequivocabile: «Approfondire la riforma in modo ampio e completo per l’obbiettivo di far avanzare la modernizzazione cinese».Vi ricordate le Quattro modernizzazioni fissate da Zhou Enlai nel 1963 per migliorare l’agricoltura, l’industria, la difesa nazionale, la scienza e la tecnologia? Ma il record di giorni, quasi in quarantena, in un albergo di Pechino è quello del plenum del 1978, che durò un solo giorno ma con a seguire una riunione di lavoro di 36 giorni nello stesso hotel.
È mitico quel Plenum, perché confermò l’ascesa definitiva al potere del grande Deng Xiaoping, che ha voluto sempre mantenere il titolo di vicepresidente, mai quello di presidente. Deng compì gli atti fondamentali per l’apertura dell’economia cinese. L’attuale presidente Xi Jinping è salito al potere nel 2012 e annunciò il suo programma con la metafora di scalare le montagne, regno delle tigri; se Deng è stato sicuramente un riformatore quasi rivoluzionario; Xi, di fatto, ambisce allo stesso ruolo, anche se il suo imprinting è decisamente più conservatore.
Al suo terzo mandato, dopo la riforma della costituzione che originariamente ne prevedeva due, Xi dovrebbe, a giudizio di molti, essere un riformatore più coraggioso. Soprattutto per l’economia, che finora si è essenzialmente basata sull’attività immobiliare, la vendita dei terreni e la costruzione dei palazzi. Non basta più, perché la Cina deve affrontare e competere con un mondo occidentale che ha un sentimento più ostile e che sta tentando di costruire una sorta di Muraglie cinesi per frenare le esportazioni di prodotti cinesi e per impedire che la tecnologia occidentale arrivi in Cina e la Cina esporti la sua.
Il terzo Plenum dei sette che si tengono nel quinquennio è di solito quello che viene osservato con maggiore attenzione e per questo viene anche ampiamente promosso dai media nazionali. In realtà, a giudizio di alcuni, questo plenum della seconda metà di luglio non ha spinto per un cambiamento di rotta, ma ha guardato più alla continuità. La presidente Meloni deve attendersi quindi un mondo cinese compassato, che sta cercando di migliorare la situazione economica ma senza aperture rivoluzionarie. Da un lato può essere un vantaggio, dall’altro uno svantaggio perché l’Italia ha bisogno di crescere fortemente nell’interscambio, che le ultime statistiche indicano in un totale di 73,9 miliardi di euro di cui però solo 16,6 miliardi di esportazioni italiane verso la Cina. Davvero poco se si confronta con altri paesi europei, il primo dei quali è quello tedesco.
C’è da dire che in realtà la Presidente Meloni ha mandato avanti nelle scorse settimane il ministro del made in Italy, Adolfo Urso, che sfruttando il disimpegno di Stellantis in Italia ha fatto molti passi avanti sulla possibilità che in Italia ci siano fabbriche per auto cinesi. Il ministro Urso per questo di recente non ha esitato ad attaccare frontalmente Stellantis, il cui maggior azionista e l’italiana Exor e il presidente con poteri operativi è John Elkann, il nipote di Giovanni Agnelli. Tutti sanno quali sono a oggi i numeri modestissimi di auto Stellantis in Italia, al punto che proprio Urso ha affrontato a muso duro anche il ceo della società, Carlos Tavares, e qualcosa si è mosso; ma dal viaggio in Cina Urso ha riportato la constatazione di quanto i costruttori cinesi siano avanti.
Il ministro ha potuto vedere il lievitare dei robotaxi nella versione di Baidu, il leader della tecnologia digitale. Il taxi senza pilota si chiama Apollo Go ed è presente in 11 città cinesi effettuando 6 milioni di corse. La città di elezione per Apollo Go è Wuhan dove al momento sono operative 400 auto senza pilota ma entro il 24 saranno mille. Nonostante la disciplina politica, i circa 10 milioni di cinesi impegnati nell’attività dei taxi tradizionali ovviamente non sono contenti e a chi li interroga per sapere come la pensano rispondano senza esitazione che è già significativo l’effetto sulle 11 città. Un altro taxista ha dichiarato a un giornale inglese che naturalmente ammira il progresso tecnologico di Baidu ma pensa che il suo lavoro venga rubato dalle auto senza guidatore.
Ho citato soltanto la tecnologia delle auto e quindi dei taxi senza autista, ma è in generale la tecnologia o la super tecnologia che stanno cambiando il paese e in un certo senso per chi osserva, è possibile capire che cosa potrà succedere fra qualche anno in Italia. Chi l’avrebbe mai detto che la Cina sarebbe diventata, in alcuni settori chiave, il paese più avanzato al mondo. In Cina il divario fra ricchi e poveri è aumentato fortemente negli anni 90, per stabilizzarsi attualmente. Ci sono ricerche molto interessanti su questo aspetto. E le può comprendere bene chi si è avvicinato alla Cina fin da una prima lettura de Il Milione di Marco Polo, di cui Class Editori ripubblica ora l’edizione in italiano moderno realizzata molti anni fa da Giorgio Trombetta Panigadi.
Ho ancora nelle orecchie le parole del dr. Chen, straordinario medico specialista in agopuntura a Milano. Mi raccontava degli anni dell’Università a Pechino, dove nessuno studente aveva da mangiare e poteva solo bere, con la conseguenza di avere una pancia enorme. Fu solo con l’avvento di Deng che cominciò un miglioramento economico fondamentale, grazie anche all’aiuto dell’Italia che per geniale scelta del ministro del commercio estero Rinaldo Ossola, ex-direttore generale di Bankitalia, nel dicembre 1978 aprì alla Cina, senza chiedere garanzie, una linea di credito stand by di un miliardo e più di dollari per comprare prodotti italiani. La riconoscenza di Deng fu talmente forte che lo ricevette per tre volte di seguito in una settimana. E volle rivederlo nella città proibita, prima che Ossola partisse per Shanghai.
Quasi nessuno dopo Ossola ha compreso la grande opportunità che poteva avere l’Italia per quel gesto straordinario. Un sussulto c’è stato con la presidenza di Matteo Renzi che organizzò una missione molto strutturata, con una conferenza comune nella città proibita con lui stesso e il presidente Xi, avviando uno strumento straordinario come il Business Forum ItaliaCina, che purtroppo è stato fatto decadere ma che ora, con l’organizzazione affidata alla Cdp guidata da Dario Scannapieco, sembra avviata sul rilancio, come si augurano i responsabili cinesi. Perché sanno che dal dialogo e incontro fra imprenditori e banche possono nascere molte occasioni di business.
Priva di senso è stata invece la bravata del governo Conte di far entrare l’Italia, unico paese europeo, nella Via della Seta, l’idea del presidente Xi di rifare il percorso di Marco Polo creando alleanze e scambi fra la Cina e tutti i paesi attraversati. La presidente Meloni, penso sia per ideologia e soprattutto realismo visti i risultati nulli, decise subito di non rinnovare l’accordo, organizzando che la firma dell’uscita dell’Italia la mettesse il vicepresidente e ministro degli esteri, Antonio Tajani. E con la promessa di una successiva visita della presidente Meloni a Pechino. Visita appunto dei prossimi giorni, due soli per la precisione.
La presidente Meloni dovrà essere realmente efficace in così poco tempo per rilanciare i rapporti non tanto politici quanto commerciali. Il pil della Cina, nonostante le sacche di povertà, è, come ho già scritto, il più grande dopo quello degli Usa: oltre 26.000 miliardi di dollari gli Stati Uniti, oltre 18.000 miliardi di dollari la Cina. Terzo è il Giappone con un distacco impressionante: appena, si fa per dire, 4500 miliardi di dollari. Non è accettabile che l’Italia ottavo paese al mondo, esporti in Cina poco più di 17 miliardi di dollari.
La visita della presidente Meloni avviene in un momento particolarmente favorevole. Da tempo la Cina la Cina sta accumulando materie prime di ogni genere. Perché lo fa? Perché teme un conflitto che la coinvolga su Taiwan. Taiwan, una storia molto particolare: infatti, al culmine della guerra civile con i nazionalisti di Chiang Kai-shek, il presidente Mao permise che coloro che da destra si erano opposti alla rivoluzione riparassero a Taiwan, dal nome storico di Formosa. E il presidente Mao decretò che per 100 anni in Cina non si parlasse più di Taiwan, che era territorio cinese.
Questa direttiva di Mao l’ha ricordata prima di morire a 100 anni l’ex-segretario di Stato Harry Kissinger, che di fronte alla tensione con gli Stati Uniti, nonostante l’età prese l’aereo per Pechino. Proprio per ricordare quella indicazione del presidente Mao e quindi evitare che la Cina ambisse a riconnettere Taiwan prima del tempo profetico dei 100 anni. In realtà, quando Mao dette quella direttiva correva l’anno 1949: al compimento dei 100 anni ne mancano ancora 25. La indicazione di Mao sarà seguita dal suo erede Xi Jinping? O i numerosi atolli nel mare di Taiwan occupati da cinesi, insieme alla flottiglia numerosissima di pescherecci, hanno già un programma fissato?
Personalmente non credo che la saggezza severa del presidente Xi porterà a una nuova area infuocata. È vero che Xi ha introdotto il suo pensiero nella costituzione, togliendo anche il limite dei due mandati che gli permette di essere al terzo. Ma la stabilità in questo mondo totalmente instabile è questa volta un valore. E non a caso un giornale tutto sommato conservatore come The Economist ha recentemente evocato per il presidente Xi la saggezza di Confucio, secondo il quale «i governi non devono preoccuparsi della scarsità, ma della diseguaglianza». Per questo il presidente Xi predica «una prosperità comune», aggiungendo che in Occidente i divari di ricchezza hanno causato pericolose divisioni sociali.
È sicuramente per questo che in Cina al momento non è più la stagione dei capitalisti cinesi rampanti, di cui è stato un simbolo Jack Ma, fondatore di Alibaba. Due ricercatori americani esperti di Cina, Scott Rozelle e Martin Whyte, hanno accertato che i cinesi in genere hanno accettato di non poter mirare a diventare ricchi, ma dalla loro ricerca emerge che ciò non gli ha tolto l’ottimismo sulla possibilità di migliorare la loro vita. In altre parole, in Cina il momento degli imprenditori rampanti è ufficialmente finito e questo consente al presidente Xi di mirare a una crescita dell’economia senza creare reazioni della popolazione nel vedere, come è successo nel passato, alcuni fortunati o più spregiudicati esibire ricchezze immense. Naturalmente ciò non esclude eccezioni, ma seguendo la lezione di Confucio il governo cinese sembra aver recuperato un equilibrio più sano di quanto è accaduto nei primi anni del secolo.
È una radiografia interessante quella di Rozelle e Whyte perché aiuta anche a capire, da parte di chi vuole fare affari con la Cina, come dovrebbero agire più intensamente gli imprenditori italiani: il business vero è nel servire una borghesia media, non soltanto i super ricchi che naturalmente continuano a esistere. Ciò è praticamente utile da conoscere per il settore dei brand della moda italiana, che naturalmente possono continuare a servire l’élite ma hanno la possibilità di rafforzarsi pensando alla classe media. È questa una informazione utile anche per gli altri possibili esportatori italiani in Cina e per le aziende che vogliono produrre in Cina. È auspicabile che il breve viaggio della presidente Meloni sia comunque l’inizio di una nuova fase di sviluppo dell’interscambio anche dal lato dell’Italia, tenuto anche conto che gli accordi raggiunti dal bravo ministro Urso per le auto elettriche inevitabilmente porterà più Cina in Italia.
Quindi, ci vuole la determinazione e l’organizzazione perché molta più Italia, sotto forma di prodotti o di produzioni in loco sia italiana. Non dimenticando mai da parte di chi gestisce i rapporti con la Cina, il gesto dell’Italia nel 1978 attraverso il ministro Ossola e la missioni più recente di Renzi. È il caso che la presidente Meloni cerchi di rinverdire quel periodo, perché se l’Italia non cresce in Cina, dove può crescere?
Certo in Africa (dove peraltro la presenza cinese è diffusissima), in base al Piano Mattei su cui la presidente del consiglio punta moltissimo. Ma non c’è antitesi. In Africa si possono anche fare affari, ma soprattutto si va a dare aiuti per evitare l’immigrazione; in Cina sia le aziende statali che quelle private possono fare grandi affari. Basta imitare la cancelliera Angela Merkel che organizzava diversi Jumbo ogni anno carichi di imprenditori tedeschi. E infatti oggi VW realizza in Cina il 40% del suo fatturato. (riproduzione riservata)