Sono 513, strutturate in 20 capitoli, le pagine della Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), firmata il 15 novembre scorso tra una quindicina di paesi dell'area Asia Pacifico, partnership che ha l'ambizione di diventare riferimento normativo per il 30% degli scambi dell’economia mondiale con una platea di oltre 2,2 miliardi di persone.
L'importanza sta in questi numeri, nonostante l'impronunciabile acronimo che lo contraddistingue, e, soprattutto il fatto che diventerà operativo, se lo diventerà, dall'inizio del 2022, a patto che i singoli governi di Cina, dei 10 paesi membri dell’Asean (Association of South-East Asian Nations), tra cui quattro big, Vietnam, Filippine, Indonesia e Tailandia, e di Giappone, Corea del Sud, Nuova Zelanda ed Australia, lo ratifichino entro il 21 novembre 2021.
Ma c'è di più, perché RCEP è anche un trattato che potremmo definire di ultima generazione, perché ha una portata molto più ampia rispetto agli altri FTA (Free Trade Agreement) che erano stati sottoscritti negli anni passati tra Paesi Asean e la Cina.
Alcuni analisti hanno commentato la sottoscrizione di questo trattato come una rivalsa nei confronti degli Stati Uniti che, sempre con alcuni degli stessi membri dell’Asean, avevano ratificato nel 2018 il CPTPP (Comprehensive and Progressive Trans-Pacific Partnership) con esclusione della Cina che non aveva accettato di farne parte a causa dell'incombente guerra dei dazi.
I prodromi di quanto sta accadendo in questi giorni risalgono al non lontano 2013 quando in Brunei, dopo un anno di preparativi, si tenne il primo round della negoziazione di questa nuova organizzazione transnazionale.
A quel tempo, più o meno larvatamente, erano già comparse posizioni differenti tra India, Cina e Stati minori dell’Asean. Infatti l’India si era opposta ad aprire il proprio mercato domestico alla procedura “zero tariffe” per i prodotti provenienti dalla Cina; d’altro canto la Cina aveva tentato di convincere gli altri Stati a muoversi non tenendo conto dell’India, direzione che poteva rivelarsi un percorso da vicolo cieco per i piccoli stati.
Anche la Nuova Zelanda aveva mostrato qualche perplessità riguardo al capitolo sulla protezione degli investitori. Questi ostacoli ed incomprensioni tra Paesi negoziatori sono stati rimossi solamente in questi ultimi mesi anche a causa della situazione pandemica mondiale che ha obbligato a una accelerazione con il risultato che, alla firma finale l’India non ha partecipato, altri, come la Malesia, hanno storto un pò il naso e l’Australia, che in questo momento non vive un particolare idillio con la Cina, ha sperato in una riconciliazione peraltro già raffreddata dalla Cina stessa.
Ma il Rcep sembra aprire una nuova fase. Il trattto prende, infatti, in considerazione un’ampia gamma di categorie che includono il commercio e la libera circolazione delle merci, con l’obiettivo della riduzione totale dei dazi, gli investimenti, l’e-commerce e cross border, la proprietà intellettuale, le telecomunicazioni, la finanza, la regolamentazione della supply chain e la gestione delle controversie giudiziali.
Inoltre per la prima volta, Paesi come il Giappone e la Corea del Sud hanno condiviso una impostazione transnazionale dove la Cina ha assunto la posizione prevalente.
A conferma, dal 15 di novembre sono stati fissati diversi incontri internazionali che hanno posto in evidenza la figura ed il ruolo della Cina: in dieci giorni si sono succeduti l’incontro dei Paesi aderenti alla Brics (Brasile, Russia e Sud Africa), la sessione del G20 ospitata dall’Arabia Saudita ed infine il Summit dell’Apec durante il quale in video conferenza il Presidente Xi Jinping non ha escluso l’eventualità di aderire al CPTranspacific Pact offrendone una positiva considerazione e facendosi portavoce di valori e idee che trovano fondamento nel concetto della multilateralità nei rapporti tra Stati.
Oggi, la Cina agli albori del XXI secolo è riuscita a coagulare una parte del mondo importante per l’economia e il futuro sviluppo anche considerando la sua posizione come membro permanente a Ginevra nell’Organizzazione Internazionale per la normazione (ISO), come già accadde agli Stati Uniti alla fine dell'Ottocento.
Lo ricorsa un film spagnolo del 2016, in questi giorni, trasmesso da Netflix: 1898, Il nostro ultimo uomo nelle Filippine. Il film ripercorre le vicende dell’assedio di Baler nel momento in cui era insorto il conflitto ispano-americano che aveva portato allo smembramento dopo tre secoli dell’impero spagnolo di cui le Filippine erano parte. Il manipolo militare non voleva fino all’altimo accettare la notizia che quel territorio era stato ceduto agli Stati Uniti contro un risarcimento di 20 milioni di dollari.
Questa guerra ha poi segnato nel ventesimo secolo l’egemonia americana contestualmente alla caduta dell’impero britannico e l’accordo di Bretton Woods del 1947 ne ha certificato la predominanza del dollaro come moneta di riferimento in un ordine monetario regolarizzato.
Non si può non tenerne conto del nuovo corso della storia : forse non ci sarà un nuovo Bretton Woods ma, come nel finale del film citato, lo stesso corso della storia che sta facendo i conti con le soluzioni per la crisi pandemica, dovrà in resilienza seguire nuovi percorsi. (riproduzione riservata)
*managing director a Shanghai di Savino Del Bene, azienda di trasporti internazionali e logistica. Vive e lavora in Cina da oltre 25 anni