Per far capire che si sta andando verso un «grande accordo» Donald Trump ha usato le maiuscole nell’annunciare su Twitter di essere vicino all’intesa commerciale con la Cina. Con una certa dose di scetticismo gli osservatori più critici hanno invece definito «striminzito» il documento sul quale poggia la fase/1 del riavvicinamento. Appena 86 pagine, sufficienti a garantire un cessate-il-fuoco nella contesa tra le prime due economie al mondo, costata finora l’applicazione di tariffe per 550 miliardi di dollari sulle merci made in China e di 185 miliardi per l’export a stelle e strisce verso la Repubblica Popolare. In attesa dalla firma, la mini-intesa è servita a fermare l’entrata in vigore di ulteriori 160 miliardi di dollari di nuovi dazi sulle importazioni cinesi.
Se si tratterà solo di una tregua oppure di qualcosa di più lo si vedrà nel corso del 2020. Fare previsioni sugli sviluppi della contesa Usa- Cina «è la classica domanda da un milione di dollari», sottolinea il presidente dell’Ice, Carlo Maria Ferro, a colloquio con MF-Milano Finanza. «l’incertezza è sicuramente stata uno dei fattori del rallentamento nell’ultimo anno», aggiunge, «A oggi l’Europa è quella che ha pagato maggiormente». E Ice-agenzia è intervenuta a supporto delle imprese colpite dai dazi Usa.
Ecco perché un accordo tra Pechino e Washington, anche se parziale, è meglio del rischio di una escalation, mette in evidenza Alessandro Terzulli, capo economista di Sace. «Trump ha capito che un accordo onnicomprensivo non era possibile e pertanto ha accettato un’intesa legata soltanto alle questioni commerciali», spiega.
«All’inizio ha voluto giustificare la sua strategia accusando i cinesi di iniquità, facendo leva sugli squilibri della bilancia commerciale. Dietro lo scontro sui dazi c’è però un tema più generale di leadership tecnologica». Terzulli ricorda comunque come per un giudizio più compiuto occorrerà attendere i dettagli dell’accordo. Sulla reale efficacia, aggiunge, c’è inoltre l’incognita delle elezioni presidenziali Usa del prossimo novembre. I cinesi hanno sospeso contro-tariffe per 60 miliardi e si sono impegnati a maggiori acquisti di prodotti agricoli made in Usa.
Azioni che vanno a toccare in particolare gli agricoltori del Midwest, sui cui voti Trump conta per la rielezione. Un recente studio della Federal Reserve peraltro ha messo in evidenza che le tariffe hanno danneggiato principalmente proprio quei settori che l’azione Usa avrebbe dovuto sostenere: nel 2018 le tariffe sono state associate a una seppur lieve riduzione dell’occupazione nella manifattura e a un aumento dei prezzi per i produttori.
«Lo scontro commerciale e tecnologico può intensificarsi in ogni momento», mettono in guardia gli analisti di Junus Henderson, secondo i quali Washington ha ancora diverse leve non-commerciali da sfruttare nel corso della contesa. Allo stesso tempo, nonostante il rallentamento, le principali società cinesi «hanno continuato a innovare, sviluppare nuove opportunità di mercato e prodotti e servizi da offrire ai clienti», nonché a registrare buone performance di bilancio e di borsa. Sullo sfondo più di un commentatore cinese sventola lo spauracchio della contesa finanziaria.
«Lo scontro commerciale si sta evolvendo in una guerra finanziaria e valutaria», ha sottolineato Chen Yuan, già vicegovernatore della People’s bank of China. La stessa preoccupazione agita l’ex ministro dell’Economia Lou Jiwei, per il quale l’amministrazione Usa «è stata presa in ostaggio dal nazionalismo e dal populismo». D’altronde che le tensioni vadano oltre il commercio l’ha fatto intendere Xi Jinping facendo presente a Trump il disappunto per le posizioni Usa sulla repressione nello Xinjiang e in difesa dei manifestanti a Hong Kong. (riproduzione riservata)