La nuova Via della Seta, la Belt and Road Initiative (Bri), non costituisce nulla di nuovo per le aziende europee in Cina. In linea con il fare impresa nel paese, la struttura dell’iniziativa di Pechino comporta, infatti, una partecipazione selettiva e limitata delle aziende straniere nella Bri.
Ad essere coinvolto in progetti relativi alla nuova Via della Seta è stato dunque un numero estremamente ristretto di imprese europee, le quali hanno potuto soltanto aderire in modo marginale e laddove i fornitori cinesi stessi non possedevano le adeguate competenze.
Raramente le gare d’appalto riguardanti i piani infrastrutturali o industriali messi in atto dalla leadership cinese sono aperte. Le poche compagnie europee aderenti alla Bri sono state quasi esclusivamente implicate attraverso un partner commerciale cinese, il governo centrale o il governo locale.
Tali imprese vengono generalmente coinvolte per apportare una determinata tecnologia, o per svolgere un ruolo di facilitazione attraverso l’esperienza operativa maturata precedentemente sul campo nei paesi beneficiari e nella Cina stessa. La restante partita dei progetti Bri tende ad essere concessa a società cinesi integrate verticalmente, in modo che i materiali, le forniture, i finanziamenti e le installazioni provengano interamente da fonti cinesi.
Per decenni i cosiddetti «campioni nazionali», le grandi imprese di stato cinesi, hanno disposto di un mercato interno altamente protetto, accedendo in maniera esclusiva a circa un quinto della popolazione mondiale. Oggi, la Bri si conferma sempre di più un trampolino di lancio per questi «campioni nazionali» verso mercati strategici oltre i confini nazionali.
Attraverso aiuti politico-diplomatici, vincono i grandi appalti senza concorrenza, mentre possono accedere a finanziamenti Bri poco costosi grazie al sostegno economico delle banche cinesi di proprietà statale. E, come se competere con le imprese cinesi nei mercati terzi non fosse già abbastanza arduo date le loro economie di scala, l’afflusso di sussidi di stato consente a tali imprese di offrire prezzi drasticamente inferiori nei rari contesti di effettiva competizione per la realizzazione di progetti infrastrutturali.
I «campioni nazionali», inoltre, possono sfruttare gli standard di produzione che hanno contribuito a sviluppare in precedenza per il mercato interno nelle economie in via di sviluppo lungo la nuova Via della Seta, assicurandosi così una posizione assai vantaggiosa rispetto ai concorrenti internazionali. A questo si aggiunge l’ascesa, a livello globale, di beni e di servizi digitali in ciascun settore industriale.
Le tecnologie che definiranno i decenni a venire, come la block-chain, il 5G e i servizi VPN, sono ancora fortemente ristrette all’interno del mercato cinese. Basti pensare che società europee in grado di gestire i propri servizi digitali a livello internazionale non possono fare lo stesso in Cina, dove le licenze necessarie al fine di erogare tali servizi vengono raramente concesse ad imprese europee.
Non dovendo fronteggiare simili problemi di integrazione nella gestione dei loro prodotti digitali, i concorrenti cinesi hanno, invece, accesso ad un mare di consumatori, mentre alle imprese straniere non resta che spartire i restanti 4/5 dell’umanità al di fuori della Cina.
Occorre, ora, che l’Ue e i suoi stati membri agiscano in fretta. In primo luogo, l’Ue deve riesaminare la sua politica di concorrenza interna, la quale ostacola le imprese europee all’estero che competono con i giganteschi colossi cinesi in assenza di condizioni di parità. In secondo luogo, l’Ue deve creare una linea di difesa efficace per difendersi dalle distorsioni di mercato ed esercitare, al contempo, ulteriore pressione per promuovere un rapporto di reciprocità con la Cina.
Ciò prevede una selezione più accurata degli investimenti cinesi da parte dell’Ue per impedire ai campioni nazionali del paese, «rimpolpati» da lauti sussidi di stato, di trascinare al ribasso il mercato europeo. Tali misure richiedono, inoltre, la messa in atto di meccanismi di revisione come l’International Procurement Instrument per l’accesso agli appalti comunitari e di cui l’Europa può avvalersi per far leva sulla Cina affinché Beijing apra il proprio mercato in ugual misura.
Infine, l’Ue dovrebbe implementare gli stessi meccanismi di revisione nell’ambito dei beni e dei servizi digitali in modo da garantire alle imprese europee pari accesso al mercato cinese.
In terzo luogo, l’Europa deve assumere un ruolo più attivo a livello globale, a partire dal piano di connettività annunciato dall’Ue nel settembre 2018 e che finora ha registrato un progresso modesto. Nessuna iniziativa di connettività vigente supera il piano avanzato dall’Ue in scrupolosità e trasparenza, ragion per cui esso costituisce l’unica reale alternativa alla Belt and Road Initiative per i mercati terzi desiderosi di espandere la propria connettività.
Dopotutto, sin dal suo concepimento, l’obiettivo cardine del progetto europeo verte sull’abbattimento delle barriere economiche all’interno dei confini dell’Unione stessa. L’Ue deve svolgere una funzione più proattiva a livello internazionale e ripetere il proprio miracolo di connettività in altre regioni, adattando le regole di mercato comunitarie a una «China Inc.» sempre più intraprendente oltreconfine. Fallire in tale intento significherebbe relegare l’Europa, e il suo autorevole mercato, a un ruolo irrimediabilmente passivo ai margini dell’Eurasia. (riproduzione riservata)
*avvocato, vicepresidente nazionale e presidente della Sezione di Shanghai della Camera di Commercio dell’Unione Europea in Cina