Uno dei colossi della transizione energetica made in Cina, Goldwind Science & Technology, il più grande produttore di turbine eoliche, ha visto gli utili dell'ultimo trimestre dimezzarsi a 1,3 milioni di dollari a causa della guerra dei prezzi tra i leader, mentre le vendite dei primi nove mesi dell'anno sono cresciute del 25% su base annua, a 8,9 GW.
Il grande piano cinese per tagliare le emissioni inquinanti affidandosi alle tecnologie green ha portato non solo a un aumento degli impianti rinnovabili, ma ha causato una competizione sempre più feroce tra i vari produttori, dando vita a una guerra dei prezzi che ha portato all'inevitabile svalutazione degli asset e dei valori di carico nei bilanci.
Questa spirale negativa non sta risparmiando i grandi gruppi del settore anche in Europa, dai costruttori come Siemens, ricorso a garanzie di Stato per salvaguardare i propri progetti, alle utility come Vattenfall e Iberdrola.
Uno dei casi più eclatanti riguarda il gruppo danese Ørsted, numero uno al mondo nell'eolico offshore, di proprietà dello Stato scandinavo, che è passato dalla produzione di idrocarburi allo sviluppo delle rinnovabili. Il primo novembre scorso, le azioni di Ørsted alla Borsa di Copenaghen sono crollate fino a perdere il 26%, dopo l'annuncio della perdita di 4 miliardi di dollari, per aver interrotto i lavori di due grandi progetti al largo delle coste del New Jersey.
Così come altri progetti, dal Mare del Nord in Europa al Mar Cinese in Asia, l'industria dell'eolico offshore è stata colpita da un "combo" di condizioni negative. Al primo posto, l'interruzione delle catene di approvvigionamento, causata dalla guerra commerciale tra le grandi potenze per le forniture delle materie prime necessarie per la produzione di impianti rinnovabili. Al secondo posto, l'aumento dei costi di materiali e tecnologie. Per arrivare al terzo punto, il peso degli interessi finanziari, saliti con le manovre anti-inflazione delle banche centrali.
Sono proprio le ragioni che hanno portato Ørsted a cancellare i progetti negli Stati Uniti e che hanno amplificato le perdite in Borsa: il gruppo danese ha subito un calo di capitalizzazione del 60% da inizio anno. Così come è avvenuto sempre nelle ultime settimane a BP, che ha dovuto svalutare per 540 milioni due progetti al largo di New York.
Nonostante tutto, l'amministratore delegato di Ørsted, Mads Nipper, ha presentato al mercato un terzo trimestre molto positivo dal punto di vista dei numeri, con un utile netto di 5,9 miliardi di corone danesi (quasi 8 miliardi di euro). Nipper ha potuto sostenere, quindi, che "le capacità di generare utili da parte della società rimangono solide".
Nonostante questi paradossi, la transizione non ha subìto una battuta d'arresto. Secondo l'Agenzia internazionale dell'energia (AIE), nel corso del 2023 verranno aggiunti 500 GW di generazione rinnovabile, dove il solare avrà il peso maggiore. Mentre l'eolico sarà il settore che subirà le perdite più rilevanti: del resto, a inizio anno il Global Wind Energy Council (GWEC) aveva messo tutti sull'attenti: il 2023 sarà il primo anno a superare i 100 GW di nuova capacità eolica installata, ma saranno necessari "interventi urgenti da parte delle istituzioni per garantire una catena di approvvigionamento sicura e puntuale".
Morale: le difficoltà si riflettono sui risultati in Borsa, con un calo delle quotazioni che ha accelerato nella seconda metà dell'anno; l'indice S&P Global Clean Energy è sceso del 30% nel primo semestre dell'anno, mentre nello stesso periodo il S&P Energy è andato in controtendenza, mostrando un segno positivo.
A detta degli esperti, è una battuta d'arresto inevitabile in un periodo di transizione. La decisione di andare verso le energie pulite non viene messa in discussione, anche perché sta creando nuovi posti di lavoro ben retribuiti nel settore manifatturiero, navale e nelle infrastrutture, in misura superiore a quelli che si perdono nel settore dei fossili. Il piano verso la green economy è sempre più inclinato. (riproduzione riservata)