In barba alle tensioni tra Pechino e Washington, sempre più colossi finanziari americani si stanno muovendo in profondità nel mercato cinese. Ieri è stata la volta di Citi, che ha ottenuto dalla China Securities Regulatory Commission la licenza di custodia di fondi nazionali, divenendo di fatto la prima banca statunitense a farlo. Grazie a questa licenza, e una volta superata l’ispezione del regolatore entro fine 2020, l’istituto guidato dal ceo Michael Corbat potrà detenere titoli e vendere i relativi servizi di custodia a fondi comuni di investimento cinesi e a fondi privati.
«L’annuncio di Citi è un ulteriore sviluppo della modifica delle regole di custodia dei fondi avvenuta circa un mese fa», ha dichirato Tianjun Wu, vice economista presso l’Economist Intelligence Unit, sottolineando come questo rappresenti «un altro passo da parte della Cina per aprire il proprio settore finanziario, il che significherebbe maggiori opportunità per le istituzioni finanziarie straniere in futuro». Inoltre, l’iniziativa la dice lunga sulla voglia della Cina non solo di mostrare un mercato aperto alla partecipazione straniera ma soprattutto «di dimostrare come, in questo periodo di maggiore incertezza in Europa e negli Usa, loro siano stati in grado di superare con successo il Covid-19 e di tornare al lavoro come al solito, in tempi rapidi», ha osservato Peter Alexander, fondatore e ceo di Z-Ben Advisors.
Le scelte del presidente Xi Jinping consentiranno comunque ai gestori patrimoniali di avere una fetta di quei circa 90 mila miliardi di yuan (12.700 miliardi di dollari) di attività che i money manager si troveranno in portafoglio entro il 2023, secondo le stime di Oliver Wyman. Deloitte, invece, alla fine dello scorso anno, ha stimato che la ricchezza finanziaria al dettaglio in Cina avrebbe superato i 30 mila miliardi di dollari entro il 2023, con più di un decimo di quella in fondi cinesi registrati pubblicamente. Stime a parte, quel che è certo è che a luglio 2020 c’erano più di 140 gestori di fondi comuni di investimento cinesi che supervisionavano più di 17 mila miliardi di yuan in attività, secondo l’Asset Management Association of China.
La mossa di Citi, comunque, è solo l’ultima di un processo avviato ormai due anni fa, quando il governo cinese ha accelerato gli sforzi per consentire un maggiore accesso estero al proprio mercato finanziario, fino ad allora praticamente inaccessibile. Il 21 agosto, per esempio, il colosso del risparmio gestito BlackRock ha ottenuto l’approvazione per l’avvio dell’attività di gestione patrimoniale interamente controllata in Cina. Entro sei mesi la società dovrebbe essere costituita e dovrebbe avere un capitale sociale di 300 milioni di yuan (43,9 milioni di dollari). A breve potrebbe poi essere la volta di Vanguard che starebbe addirittura pianificando la chiusura di tutte le attività a Hong Kong, e in Giappone in generale, per spostare la sede centrale a Shanghai. Non è ancora certa la tempistica, visto che secondo recenti indiscrezioni potrebbero volerci dai 6 mesi ai due anni.
Ad aprile anche Neuberger Berman aveva fatto domanda alla China Securities Regulatory Commission per costituire una società che gestisca e venda fondi comuni di investimento in Cina, con il capo dell’area Asia-Pacifico Nick Hoar che aveva sottolineato di vedere «la Cina come un’importante opportunità di mercato», ribadendo l’impegno a lungo termine del gruppo nella creazione di una società di gestione patrimoniale a pieno servizio nel Paese. A fine marzo, invece, Goldman Sachs e Morgan Stanley erano stati autorizzati a prendere quote di maggioranza nelle società per azioni cinesi. (riproduzione riservata)