Che cosa si nasconde dietro il fenomeno del fast fashion in Cina e le aziende che lo hanno rivelato, Shein, in primo luogo, seguita a qualche lunghezza da Temu e Caniao, Caniao spin off di Alibaba?
La risposta è duplice: la prima concerne siti produttivi e di ideazione di modelli destinati prevalentemente al mercato internazionale; la seconda riguarda produzione e consumo nel mercato domestico che ha assunto negli ultimi anni una variegata ed inimmaginabile distribuzione on line.
Sembra lontano il tempo di quando Chris Xu, fondatore e stratega di Shein, nel 2008, decise di lasciare l’impiego in una società di marketing per dedicarsi alla creazione di una società di retail nel campo del fashion. Tutto questo avveniva a Nanchino, città di nascita e di formazione di Chris.
In questi 15 anni, la creatura di Chris è diventata tentacolare se è vero che, oltre ai tanti siti produttivi in Cina, è riuscita a essere presente e venduta in 220 Paesi, diventando il brand cinese più conosciuto ed acquistato.
Nel 2023 ha raddoppiato i profitti portandoli a 2 miliardi di dollari e, con una capitalizzazione stimata di 100 miliardi di USD, è in attesa di ottenere la green light dall’autorità di Pechino per quotarsi con una IPO alla borsa di New York o Londra.
Con oltre diecimila dipendenti in Cina e una supply chain di 25.000 fornitori localizzati soprattutto nel Guangdong nel Pearl River Delta, Shein è registrata anche a Singapore dove sono presenti altri azionisti qualificati, tra cui il fondo Sequoia.
Il fattore di successo di Shein, oltre a non possedere negozi fisici – fatto salvo un permanent store a Tokyio e alcuni pop up stores aperti per pochi giorni nelle diverse città del mondo, è quello di lanciare sul mercato ogni giorno circa 6.000 nuovi modelli a prezzi molto concorrenziali. Ogni giorno dalla Cina per il resto del mondo vengono spedite circa 5.000 tonnellate di cui l’80% con servizi charter dedicati.
L’altro player Temu, controllata da POD Holding che possiede anche la piattaforma Pinduoduo, ha iniziato ad operare solo nel settembre 2022 negli Stati Uniti (in Cina era il momento pandemico) e nell’anno sussessivo si è sviluppata in Europa, Italia compresa e nel resto del mondo. È la diretta rivale di Shein, in dimensioni più ridotte, con la quale continua ad alimentare contenzioso legale per copywriter ed accordi di esclusiva con i fornitori.
Il fast fashion era stato ideato da Zara, appartenente al gruppo spagnolo Inditex e dalla giapponese Uniqlo negli anni ottanta con l’obiettivo di svecchiare il sistema moda combinando la velocità del cambiamento dei modelli con l’accessibilità dei prezzi di vendita.
In Cina il fast fashion è comparso nel 2002 con il primo negozio Uniqlo seguito poi da Zara e dalla svedese H&M. Il successo fu totale con volumi di vendita nel decennio successivo pari a oltre 27 miliardi di dollari USA.
A partire dal 2018 l’accelerazione dei prezzi di affitto dei locali commerciali di prestigio e l’avanzamento delle piattaforme di e-commerce contribuirono ad iniziare il declino dei negozi fisici tanto che nel 2022 in Cina, grazie anche alla spallata della pandemia, il numero totale anno su anno è diminuito del 49,5% corrispondente a 154 negozi operativi.
In questo contesto le piattaforme online hanno completamente preso piede conquistando un mercato orientato ad una domanda più sofisticata o, come viene definita consapevole, ma soprattutto non avendo la zavorra dei negozi fisici dove la movimentazione del prodotto sia quello da promuovere sia lo stock ha comunque un costo rilevante di trasporto e di deposito. Spesso i negozi hanno un piccolo retrobottega oppure sono costretti ad utilizzare locali nel building che non permettono di avere un’ampia gamma di modelli, taglia e colore.
Come diretta conseguenza oggi il mercato domestico è presidiato dal fast fashion i cui canali di distribuzione sono le classiche piattaforme quali Tmall, JingDong e Wechat miniprogram.
Tutti possono utilizzarli per promuovere i propri prodotti tenendo presente solo l’impegno di aggiornare programmi e cataloghi in modo da essere quotidianamente innovativi anche sulle modalità di vendita e della gestione dei resi con eventuali integrazioni on line e offline se in essere.
Di tutte queste collezioni di brand sconosciuti, la condizione di base è il prezzo di vendita. Infatti Shein in Cina non è competitivo pur essendo molto economico e quasi nessun consumatore della generazione Z acquista da questa piattaforma.
In questo scenario che non si discosta dal resto del mondo e dove forse l’unico elemento di differenza è la velocità dell’acquisto si creano output che mal si conciliano con il tanto discusso climat change: uso eccessivo di derivati chimici per la produzione dei tessuti, smisurato consumo di acqua per tintorie e lavaggi e milioni di tonnellate di abiti in disuso che non vengono riciclati ma abbandonati in discariche localizzate nel mondo di cui il deserto di Atacama in Cile ne rappresenta l’iperbole. Solo in Cina ogni anno si producono 30 milioni di tonnellate di vestiario inusato di cui solo l’1% viene riciclato.
Diventa difficile pensare a come trasferire l’oggettivazione di questa realtà con asserzioni quali quelle di Zheng Lei, capo economista di uno dei tanti cloud services providers come Smydigtech:«I brand devono modificare la loro strategia di business in Cina per adattarla all’ambiente di un nuovo mercato e a una diversificata domanda di consumo. I consumatori hanno un’alta esigenza di qualità ed esperienza». (riproduzione riservata)
*presidente di Savino del Bene Shanghai Co. Vive e lavora a Shanghai da 30 anni