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Belt & Road

Iraq star della BRI nel 2021, Pechino vi investe 10,5 miliardi di dollari

Centrali elettriche, come quella di Khairat da 5 miliardi, estrazione di gas, al confine con l'Iran, lo sviluppo di un aeroporto, di centrali solari sono i principali progetti dell'intervento cinese. Che l'anno scorso, nell'ambito della Nuova Via della Seta nettamente privilegiato gli interventi in Medio Oriente, sostituendosi agli Usa


02/02/2022 16:38

di Pier Paolo Albricci - Class Editori

settimanale
Bagdad, la grande moschea Al kadhimain

La Cina sta "comprando" l'Iraq. Il Paese del Medio Oriente ha ricevuto la fetta maggiore di investimenti nell'ambito dell'Iniziativa Belt and Road (BRI) - la Nuova Via della Seta cinese - per un totale di 10,5 miliardi di dollari destinati a infrastrutture.

In tutto nel 2021 gli investimenti nei 144 Paesi coinvolti nella BRI sono stati pari a 59,5 miliardi di dollari, un miliardo in meno rispetto al 2020, secondo un rapporto realizzato dall'Università Fudan di Shanghai attraverso il suo Centro per la finanza e lo sviluppo verde.

La cubatura di questi interventi, quindi, è stata più o meno simile nei due anni a livello globale. Ma, se guardiamo al Medio Oriente e ai Paesi arabi, il quadro cambia completamente: lo scorso anno gli investimenti sono aumentati del 360% e i progetti del 116%.

È il segno di un focus che si è spostato su una regione che è stata a lungo al centro degli interessi geostrategici americani, ma che ora è diventata importante per le strategie geopolitiche di Pechino.

L'Iraq, in particolare, con gli investimenti dello scorso anno, è diventato il terzo Paese di destinazione dei progetti globali dal lancio della BRI per quanto riguarda l'energia, dopo il Pakistan e la Russia.

Il progetto più importante frutto della cooperazione tra Pechino e Baghdad è la costruzione della centrale elettrica a olio pesante di al Khairat, nella provincia di Kerbala, per un investimento di 5 miliardi di dollari.

L'altro grande impegno è quello per lo sviluppo del giacimento di gas di Mansuriya, al confine con l'Iran. Cina e Iraq, inoltre, stanno cooperando per lo sviluppo di un aeroporto, di centrali solari e di altri progetti comuni.

L'avanzata cinese in Medio Oriente viene mentre la presidenza di Joe Biden sta disimpegnando gli Usa da quel teatro. In Iraq, Paese occupato dal 2003 al 2011 con un grande spargimento di sangue anche da parte americana, solo lo scorso anno il presidente ha concluso la missione di combattimento e ancora oggi mantiene oltre 2mila soldati con compiti di addestramento a sostegno delle forze regolari contro l'ISIS.

D'altronde la Cina dipende fortemente per il suo import energetico dal Medio Oriente e dall'Iraq in particolare, secondo produttore di petrolio tra i Paesi OPEC.

Pechino ha trovato in Iraq, che ha un disperato bisogno di investimenti, orecchie attente, a partire dall'ex primo ministro Adel Abdul Mahdi che, in una visita di cinque giorni nel settembre 2019 in Cina, parlò di un "salto quantico" nelle relazioni tra i due Paesi. In quell'occasione fu firmato un Memorandum d'Intesa e fu annunciata la decisione di Baghdad di aderire alla BRI.

Lo sviluppo dei rapporti, nonostante l'endemica instabilità irachena, da allora ha proceduto spedito e la Cina è sempre più presente nel Paese. Pechino ha anche aperto una scuola nella regione curdo-irachena del nord. E potrebbe puntare a subentrare agli americani - ma non solo a loro - in diversi progetti nel campo energetico in un momento in cui le compagnie occidentali stanno facendo calare la loro presenza nel Paese.

Lo scorso anno il gigante Usa ExxonMobil ha lasciato il giacimento di West Qurna, nonostante le richieste irachene di ripensarci. La BP britannica, che gestisce l'enorme giacimento di Rumaila, ha ottenuto da Baghdad l'ok allo spin-off per costituire una nuova compagnia in joint venture con la cinese CNPC, con una mossa che indica la volontà della compagnia petrolifera britannica di orientarsi verso le energie rinnovabili. Ancora, la russa Lukoil chiede una revisione dei termini economici della sua presenza nel Paese.

In un contesto in cui i margini di profitto si assottigliano per Baghdad, Pechino offre un'alternativa piuttosto attraente. E, dal punto di vista cinese, investire in un contesto così instabile rappresenta, oltre che un'opportunità economica e geopolitica, una necessità: contribuisce infatti a stabilizzare il Paese che destina il 40% del suo export ad alimentare le automobili, le fabbriche, le centrali e gli impianti di riscaldamento delle famiglie cinesi. (riproduzione riservata)


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