Con l’uscita dal mondo del lavoro di 28 milioni di persone, la Cina quest’anno tocca l’apogeo pensionistico, essendo stato il 1963 l’anno più fertile dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949.
Infatti, sulla scia dei piani quinquennali, le nascite erano spinte soprattutto per i figli maschi con lo scopo di irrobustire lo Stato. Esattamente vent’anni orsono la popolazione cinese si caratterizzava oltre che dalla prevalenza dei maschi, da una quota del 22% di giovani e giovanissimi con meno di 15 per circa 285 milioni, ma anche con la comparsa di un primo segnale di senescenza con una percentuale di anziani di oltre 65 anni del 7,5%, pari a 100 milioni di invidui.
Si era partiti dai 570 milioni del 1953 ai 695 del 1964, fino al miliardo e 300 milione degli anni duemila. Solo nel maggio 1979 era stata introdotta la politica del figlio unico, riformata poi nel 2016. L’ultimo censimento stimava 100 milioni in più ai giorni nostri con una percentuale di ultra sessantacinquenni di 210 milioni.
D’altro canto, gli ultimi dati disponibili a giugno segnalavano che la disoccupazione giovanile tra i 16 e 24 anni aveva raggiunto la soglia del 21,3% e che a luglio scorso vi sarebbero stati oltre undici milioni di giovani neodiplomati e neolaureati senza lavoro.
Secondo una semplice sottrazione aritmetica vi sarebbe una disponibilità lavorativa per le nuove generazioni. Purtroppo non è così automatica la porta scorrevole delle entrate e delle uscite dal mondo del lavoro.
In primo luogo, la specificità dei profili richiesti: la maggior parte dei lavoratori in uscita appartiene alla categoria operaia non meccatronica, mentre invece i neodiplomati o neolaureati hanno acquisito una specializzazione tecnico-amministrativo, se non quella tecnologica (STEM – Science, Technology, Engineering and Mathematics).
La seconda ragione è di natura salariale: proprio a causa della specializzazione acquisita, questi giovani si aspettano salari molto più alti della media, ma che in questo specifico momento non è facile ottenere.
La terza, forse la più complessa ragione, è di ordine psicologico e sociale: anche in Cina i modelli culturali di riferimento si sono modificati rapidamente come nel resto del mondo, ed il social è diventato il driver della vita di ognuno con riferimenti globalizzati che ispirano ad una vita diversa, e quindi non compatibile, salvo pochi casi, con la realtà attuale.
Grandi dimissioni o “ Bai Lan”, ovvero la rinuncia a raggiungere obiettivi a seguito delle frustrazioni incipienti, hanno preso piede anche in Cina. Potremmo perfino sostenere che il mito dell’urbanizzazione ha distorto gli aspetti comportamentali e gli obiettivi individuali.
È pur vero che oltre 800 milioni di persone vivono ancora nelle campagne, ma i giovani che possono o che vogliono urbanizzarsi acquistano rapidamente una mentalità in linea con i modelli proposti.
Attraversando con il treno ad alta velocità i quattrocento chilometri che separano Nanchino e la città di Jinan nella provincia dello Shangdong, lo sguardo è fisso su ampi spazi con coltivazioni di granoturco e altri cereali, e non ci si rende conto che esiste invece un problema occupazionale che condiziona il futuro di questo grande paese.
Uno degli elementi distintivi è la situazione economica attuale, con una diminuzione delle esportazioni non bilanciata da un altrettanto elevato consumo interno. Se la disoccupazione giovanile rappresenta l’incognita del futuro, l’attuale sistema pensionistico è ostacolo per il presente.
Le dimissioni dall’attività lavorativa ad una età relativamente bassa, 60 per gli uomini, 50 per le donne con qualifica operaia e 55 per le donne con qualifica impiegatizia (forse la più bassa al mondo), e il modesto trattamento economico mensile rispetto ai contributi versati, hanno implicazioni significative sulla vita quotidiana, soprattutto qualora si debba utilizzare il sistema sanitario. In particolare, nelle aree rurali, il sistema pensionistico è su base volontaria con una quota contributiva minima da parte del singolo, supportata dalla creazione di fondi finanziati dalla contribuzione collettiva.
Nelle aree urbane o industrializzate, invece, il trattamento pensionistico è costituito da un fondo pubblico basato su tassazione generale, da un prelievo obbligatorio dalla busta paga e da un contributo aziendale, ma dopo anni di discussione non è stato ancora predisposto un piano che modifichi al rialzo l’uscita dal posto di lavoro e nel contempo permetta un introito economico che contribuisca ad una decente vita ordinaria.
Anche perchè oggi, chi poteva far conto sui propri risparmi con un tasso di interesse, almeno per depositi di un certo valore, sopra la media, non ha più questa possibilità, per non parlare di chi si è affidato a società di raccolta fondi che promettevano elevati ritorni e si è ritrovato con un pugno di mosche quando queste finanziarie, che dovevano essere complementari al trattamento pensionistico, hanno chiuso i battenti dopo aver raccolto ingenti capitali.
Esiste quindi il problema demografico, amplificato dalla nuova urbanizzazione, compresa quella di una popolazione fluttuante di migranti interni pari a 290 milioni di individui, dalla revisione dei modelli educativi e anche dalla pesante rivoluzione tecnologica all’interno delle unità produttive con l’integrazione o la sostituzione di linee ad innovazione tecnologica che è sfociata nella robotica o nell’ AI.
La quadratura di questa situazione con un’economia a rilento e con i continui e repentini cambiamenti nell’ordine mondiale non è certo facilitata ma si rende necessaria per gli anni a venire. (riproduzione riservata)