La debole crescita del pil cinese nel terzo trimestre (+4,9%) è stata accolta negativamente da molti analisti che ne hanno attribuito la causa alle crisi concomitanti del settore immobiliare e di quello energetico. Condivido le preoccupazioni, ma non va dimenticato un concetto fondamentale: in Cina, al contrario di altri Paesi del mondo, la crescita del pil non è un output, ma un input.
Che cosa significa? Che le cause della crescita del pil, debole o forte che sia, non vanno cercate tra gli input del pil stesso - consumi, investimenti ed esportazioni - per poi arrivare alla somma. Occorre piuttosto chiedersi perché il governo cinese abbia deciso di voler arrivare a quel valore specifico e come questo numero aggregato sia servito da guida alle tre componenti del pil, che quindi non sono più un input ma un output.
Così come appunto il pil non è più un output, ma un input. Questa inversione della relazione di causa-effetto è possibile perché il governo cinese gestisce in maniera autonoma tutte le variabili macroeconomiche, dal cambio che fa da input per esportazioni e importazioni, alla curva dei tassi che viene decisa dalla banca centrale (in Cina non fanno mistero che la banca centrale non è né deve essere indipendente dal governo, anzi deve fungere da strumento operativo per le politiche monetarie) fino alla struttura stessa del pil che dipende per il 42% dagli investimenti, il rapporto più alto al mondo. In Italia, per fare un raffronto, gli investimenti valgono il 17% del pil.
Questa già elevata dipendenza è ulteriormente rafforzata dal fatto che molti di questi investimenti sono realizzati da aziende di stato, o simili. Di conseguenza il governo può ottenere il pil che si era prefissato come obiettivo decidendo di investire quel che «manca» da consumi ed esportazioni. Un po' come un'azienda che ha un suo target di vendite e, più o meno, sa che per realizzarlo servirà spendere una certa cifra in pubblicità. Naturalmente questa crescita ha un prezzo, ossia l'aumento del debito e una possibile inflazione, le cui dinamiche vanno analizzate. Nel frattempo però si incassa sul pil.
Questo processo di far crescere l'economia di quanto si desidera non è un gioco solo al rialzo, ma è possibile anche al ribasso, per rallentare la crescita. Nel caso della Cina, la definisco una «decrescita gestita». Ma perché mai, allora, visto che potrebbero crescere di più, Pechino ha deciso di rallentare?
Per due motivi. Il primo è proprio per staccarsi da un modello di crescita basato su investimenti che causa debito essendo naturalmente sempre più difficile trovare investimenti che abbiano ritorni adeguati. Quindi l'obiettivo è far scendere quel rapporto investimenti/pil dall'attuale 42% a circa 20%-25%.
Il secondo motivo è cercare di far crescere il peso dei consumi interni. Ma far crescere il peso dei consumi interni equivale a dire che i consumi devono crescere più velocemente del pil. E dal momento che la propensione marginale non può essere 100% (non tutto quel che si guadagna in più, viene speso), i salari devono crescere ancora più velocemente del pil. Ma far crescere x più di y, è tanto più facile quanto y è basso.
E quindi - semplifico di molto - una crescita del pil più contenuta rende più alla portata tale diminuzione del peso degli investimenti e il contestuale aumento del peso dei consumi. Questa dinamica si chiama «rebalancing» ed è un obiettivo dichiarato più volte dalla leadership cinese, di più facile raggiungimento se il pil non cresce di tanto. Nessuna sorpresa, quindi, nei numeri del terzo trimestre.
C'è sempre chi obietta a questa logica argomentando che il pil deve salire di almeno un tot per mantenere la stabilità sociale e continuare a migliorare il tenore di vita della popolazione che potrebbe rumoreggiare. A coloro che così obiettano sfugge proprio il significato e le conseguenze di questa politica al ribasso. Come detto sopra, l'obiettivo del ribilanciamento, che deve passare per una crescita più contenuta, è esattamente quello di far crescere i salari più velocemente del pil; quindi, la soglia «di stabilità sociale» non è la crescita del pil, ma quella dei salari.
Ed è esattamente quello che si trova analizzano il comunicato dei risultati del terzo trimestre, in un solo numero, spesso trascurato e nascosto tra i tanti: la crescita dei redditi delle famiglie residenti in zone rurali (+5,4%) in termini reali, mezzo punto più alto della crescita reale del pil di periodo. Anche estendendo l'analisi ai primi nove mesi dell'anno si nota una progressione dell'11,2% per i redditi rurali, contro una crescita del pil del 9,8%. A rendere la coesione sociale ancora più stabile va sottolineato come il reddito dei cittadini urbani sia cresciuto in linea col pil, quindi meno di quello dei residenti rurali. Così si va anche verso la riduzione delle diseguaglianze tra città e campagne, oggi pari a solo 2,6 volte, più basso di come era nel 1978. Nulla nei numeri capita per caso: tutto fa parte di un sistema olistico, complesso, ma chiaro. (riproduzione riservata)
*economista, professore alla University of Nottingham Ningbo China (UNNC) nello Zhejiang