Venti anni fa, l'11 dicembre, la Cina faceva il suo ingresso ufficiale nell'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), un momento che ha segnato uno spartiacque nel commercio mondiale ma anche nei rapporti tra Cina e mondo. Sulla stampa internazionale sono apparsi bilanci di diverso tipo, spesso poco informati. I negoziati per l'accesso della Cina sono stati tra i più lunghi nella storia del WTO e punteggiati anche all'interno del paese da periodiche voci discordi che suggerivano di restarne fuori.
Furono le mani ferme di Wu Yi e dell'allora premier Zhu Rongji a portare avanti l'adesione: gli obiettivi cinesi, infatti, andavano anche oltre i benefici immediati dell'ingresso nell'organizzazione ma riguardavano anche la possibilità di fare riforme interne più facili da giustificare in presenza di impegni esterni.
In altre parole, il governo cinese del tempo considerava l'ingresso nell'organizzazione più o meno alla stessa stregua dell'ingresso nell'Euro per l'Italia: la creazione di un vincolo esterno che rendesse improcrastinabili certe riforme interne.
Lato Europa e USA, allora le maggiori potenze commerciali al mondo, i negoziati erano capeggiati da Pascal Lamy per l'UE e da Charlene Barshefsky per l'amministrazione Clinton. Il risultato fu un protocollo di accesso lunghissimo che pochi altri paesi hanno poi dovuto firmare per accedere all'organizzazione.
La Cina si impegnava ad adottare una serie di leggi a completamento di un sistema giuridico ancora in fieri e dove la presenza della pianificazione statale e delle aziende di stato era ancora preponderante. Tutela della proprietà intellettuale, concorrenza, apertura dei servizi e degli investimenti in vari settori erano i principali argomenti del protocollo. Lavorando già a Pechino nel 2001, ricordo chiaramente che l'atmosfera generale tra le multinazionali straniere era ottimista e anzi traducibile in un "fate presto".
Un bilancio di questi vent'anni è, oggi, complesso perché nella fase di "colpevolizzazione" del paese sotto qualsiasi aspetto, le valutazioni di schieramento finiscono per prevalere su analisi economiche.
Tuttavia, può essere utile avere in mente qualche dato. Dal 2001 l'export cinese è aumentato quasi 9 volte, ma anche l'import non è stato da poco con un aumento di 7 volte e mezzo. I dazi all'import cinese sono scesi dalla media del 15,3% nel 2001 al 7.4% nel 2020 e come sa chiunque frequenti il paese i prodotti stranieri introvabili prima del 2001 si trovano ormai da tempo sugli scaffali e negli showroom cinesi.
La Cina è diventata allo stesso tempo il primo mercato al mondo per una serie lunghissima di prodotti, il primo partner commerciale di più di 120 paesi, superando gli USA in questa categoria ed è saldamente al secondo posto come pil anche se quello pro-capite è ancora molto indietro rispetto a paesi dell'Est Europa.
L'export cinese si è anche diversificato da una prevalenza di prodotti a basso costo o molto labor-intensive, che hanno reso difficile la vita a non poche aziende italiane, a prodotti anche molto avanzati, all'avanguardia in alcuni settori tecnologici.
La Cina ha anche concluso numerosi accordi preferenziali bilaterali o a livello regionale come da ultimo l'importante RCEP, ed entro il 2011 si è dotata di un corpus normativo robusto in tema di concorrenza, diritto commerciale, lavoro e proprietà intellettuale. Proprio su questo punto, nonostante la vulgata comune, la protezione della proprietà intellettuale ha fatto passi avanti notevoli come tutti i legali che lavorano con il paese possono testimoniare, se è vero che l'80% delle cause intentate da società straniere vengono vinte, secondo l'Economist.
La questione del rispetto delle regole del WTO è più complessa: basandosi solo sul numero di azioni intentate da altri paesi contro la Cina in sede di WTO, il paese è stato sul banco degli imputati 47 volte fino al 2020, mentre ha avviato azioni contro altri per 22 volte, soprattutto contro gli USA. I dati per la Unione Europea sono 90 volte e 105 volte rispettivamente.
La Cina ha perso una buona parte dei casi che gli erano stati mossi contro. Tra le sue vittorie recenti più degne di nota, quella del settembre 2020 contro una parte dei dazi di Trump sulle merci cinesi, dichiarati illegali dal panel deputato del WTO, caso che però gli USA non hanno potuto impugnare in quanto l'organismo di appello del WTO è bloccato da tempo (anche per colpa degli USA).
Un piccolo numero di controversie rispetto ad altre potenze commerciali può significare un'adesione alle regole maggiore rispetto a quello che qualcuno ha voluto far credere. Pascal Lamy, che del WTO è stato direttore, ha riconosciuto varie volte pubblicamente che il livello di rispetto formale delle regole da parte della Cina è stato nella media.
Per altri invece significa che le aziende che si sono trovate a fronteggiare comportamenti potenzialmente lesivi delle regole hanno preferito non portare la cosa all'attenzione del loro governo magari per non pregiudicare l'accesso al mercato cinese. Ma può anche significare che le regole esistenti del WTO sono inadeguate a disciplinare comportamenti che non erano previsti o prevedibili al momento della stesura delle stesse e che nemmeno il protocollo d'accesso firmato dalla Cina riesce ad inquadrare bene.
In verità ci sono questioni, soprattutto quella spinosa dei sussidi statali all'industria, dove è ormai inevitabile rimettere le mani ai trattati per tenere conto di una situazione in cui uno dei principali attori mondiali ha un settore statale ancora molto presente nell'economia e nel commercio. Anche se non è l'unico ad averlo: la questione dei sussidi, infatti, ha investito anche due economie di mercato come gli USA e la UE che si sono sfidate sul terreno di quelli all'industria dell'aviazione, per non parlare poi di paesi come quelli del Golfo in cui il settore statale molto forte.
Il WTO non regolamenta poi tutto il settore degli investimenti diretti e su questo tema ci sono state prassi adottate spesso da controparti cinesi che limitavano l'accesso al mercato cinese o imponevano condizioni (come la licenza di tecnologia) inique.
In assenza di strumenti adatti nel WTO, l'Europa ha concluso a dicembre 2020 i negoziati per un trattato sugli investimenti con la Cina che eliminava queste distorsioni, chiarendo le "linee rosse" e creando anche un meccanismo di risoluzione delle controversie "che morde". Il trattato purtroppo per decisione del parlamento europeo non è ancora stato ratificato, cosa che fa dubitare i cinesi della reale importanza per l'Europa delle concessioni che gli sono state strappate in sette anni di negoziati.
La Cina poi - come però anche altri paesi membri - continua a restare fuori dal Government Procurement Agreement che regola l'accesso agli appalti pubblici. Un bel passo avanti sarebbe convincere la Cina ad aprire anche questo enorme settore alle aziende straniere, o se non si riesce a livello multilaterale perlomeno a livello bilaterale a quelle europee, ammesso e non concesso che l'Europa sia disposta a riprendere in considerazione il trattato lasciato in sospeso.
La riforma del WTO è comunque ormai un argomento irrinunciabile anche se è prevedibile che non tutte le grandi potenze commerciali si troveranno d'accordo su quali aspetti riformare. Sono ormai andati i tempi in cui, per citare Audrey Winter, il diplomatico responsabile per la Cina nell'ufficio dello US Trade Representative, "le questioni venivano decise tra i funzionari americani ed europei davanti ad un drink in un bar di Ginevra prima dell'incontro del giorno dopo, e tutti si adattavano". Fortunatamente, anche per le nostre aziende, il mondo è più variegato di allora e ci sono altri paesi come Cina, India e Brasile che vanno assolutamente invitati a quel cocktail se si vuole sperare di avere l'incontro del giorno dopo. (riproduzione riservata)
* avvocato, partner di Baker & McKenzie e presidente Easternational