La recente decisione della Malesia, uno degli stati firmatari del RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership), fortemente voluto dalla Cina, entrato in vigore lo scorso gennaio, di chiudersi in una sorta di autarchismo o di economia a stampo medioevale non esportando al di fuori dei propri confini pone molti interrogativi sulla genesi e l'importanza dei Trattati, soprattutto quelli di libero scambio.
La Malesia ha bloccato le esportazioni verso Singapore, anch'essa firmataria del trattato che dovrebbe abbattere tutti i dazi in gran parte del continente asiatico dei suoi prodotti avicoli per un totale mensile di circa quattro milioni di capi. La decisione ha messo in forte difficoltà alimentare la Città stato dove i prezzi sono balzati all'improvviso del 30%, essendo costretta ad importare circa il 50% di congelato dal Brasile e l’8% dagli Stati Uniti per compensare la domanda interna.
La decisione della Malesia è scaturita dal fatto che dalle zone di guerra dell’Ucraina non arrivano le commodities primarie per gli allevamenti di polli (granoturco e mangimi); ciò ha provocato una crisi interna che ha comportato la necessità di mantenere le risorse all’interno del Paese. Il Primo Ministro malesiano Ismail Sabri in una veste protezionistica ha affermato: "La priorità del governo è il nostro popolo".
Anche l’Indonesia, altro partner del RECP e maggior produttore mondiale dell’olio di palma, tanto discusso ma necessario per la maggior parte della popolazione del pianeta, da un mese ha stabilito di vietarne l’esportazione fino a novembre al fine di conservarlo per i propri cittadini.
La stessa India, invece estranea al RCEP e secondo produttore di grano dopo l’Ucraina, ha sospeso l’esportazione di farina di frumento il cui raccolto è stato parzialmente distrutto da ondate di caldo inaspettato e, dopo due settimane, quella di zucchero la cui produzione vale 35 milioni di tonnellate all'anno in attesa del prossimo raccolto di settembre che si presenta incerto ancora una volta per i fattori climatici.
Questi tre esempi potrebbero essere forieri di una crisi alimentare asimmetrica che travalica contenuti negoziali multilaterali.
L’aver puntato, negli scorsi mesi, l’attenzione sulla produzione industriale, sulla scarsità di materie prime quali litio e silicio, componenti essenziali dei semiconduttori per il comparto automotive ma soprattutto per smartphone e computer, ha relegato in secondo piano e dato per scontato la “questione alimentare”, che non solo poteva essere rilevante per un Paese come la Cina, ma per altri Paesi che direttamente od indirettamente derivavano la propria fonte di approvvigionamento dall’Ucraina e dalla Russia.
Con il sorgere della pandemia, vi è stata per alcuni mesi una sorta di riscoperta di quello che poteva rappresentare la natura che è riuscita a riconquistare alcuni spazi vitali (tutti ammiravano stupefatti cieli tersi, animali che ritornavano in luoghi da cui erano stati scacciati dal dilagante antropocentrismo) poi rapidamente dimenticata. Con la variabile cibo ed alimentazione ha ripreso invece vigore quella piramide vetusta detta di Maslow dove i bisogni psicologici (fame, sete, sonno) sono alla base della sopravvivenza degli abitanti del pianeta.
Oggi ci stiamo avviando per una parte consistente della popolazione mondiale verso un ritorno a quei principi di necessità, se "36 dei 55 Paesi con crisi alimentari dipendono dall’Ucraina e dalla Russia per oltre il 10% del loro import totale di grano", come ha ricordato Maurizio Martina, vice direttore generale della Fao.
La ripresa in considerazione dei bisogni fisiologici della Piramide di Maslow sta scardinando le sovrastrutture multilaterali dei Trattati. Ogni Stato oggi cerca al proprio interno una soluzione.
Sembra quasi paradossalmente che in questo contesto, pur non snaturandoli e parlandone giornalmente, i problemi energetici siano passati in secondo piano poichè per l’energia è solo una questione di costo e di logistica (petrolio e gas sono disponibili in altre parti del mondo e sono commodities regolate da un prezzo).
I prodotti alimentari no: se dall’Ucraina non si riuscirà ad organizzare i trasporti, i cereali marciraranno ed occorrerà attendere la prossima stagione del raccolto: non sono come i combustili fossili, estraibili a comando.
Alcuni Paesi stanno orientandosi verso il sud America, in particolar verso il Brasile e l’Argentina, ma i cereali servono alle popolazioni sudamericane, sempre più in balia di fenomeni atmosferici che ne pregiudicano i raccolti.
Un discorso a parte merita l’Africa, che nel recente passato si è aggrappata al progetto faraonico della Belt and Road cinese per ricevere finanziamenti e risorse alimentari. Alcuni Paesi, in special modo quelli nord orientali come l’Egitto, acquistavano direttamente dall’Ucraina (85,6% di grano), privilegiando culture agricole più remunerative come gli aranceti in diretta concorrenza con il nostro Paese.
L’agricoltura è stata sviluppata dalla Cina nelle ex provincie italiane dell’Eritrea e della Somalia con importanti investimenti idrici. Ma non esiste niente altro e se la Cina avrà problemi nelle risorse alimentari difficilmente le distoglierà dal proprio territorio per inviarle in Africa anche se per quest’anno è stata confermata una produzione di grano di 690 milioni di MT tonnellate in leggera crescita rispetto all’anno passato e con coltivazioni che occupano una superficie arabile di 118 milioni di ettari.
La produzione del grano per quest’anno è stimata oltre i valori ma l’azione produttiva per il futuro non è altrettanto certa.
Questo scollamento rispetto alla breve vita di un Trattato può essere prologo ed anticipazione di una incertezza globale che sta avanzando quasi a voler ridefinire i confini del mondo in una visione distopica orwelliana. Auguriamoci di non arrivare alle famose macronazioni descritte nel suo capolavoro 1984: Oceania, Eurasia ed Estasia. (riproduzione riservata)
*managing director a Shanghai di Savino Del Bene, azienda di trasporti internazionali e logistica. Vive e lavora in Cina da oltre 25 anni