Le aziende italiane che hanno investito in Cina negli ultimi 30 anni sono poco più di 2000, con un totale di stock di investimenti che alcuni stimano in circa 10 miliardi di euro. Pochi, rispetto agli 80 miliardi della Germania e probabilmente sottostimati, perché le statistiche fanno fatica a tracciare flussi che passano tramite paesi terzi, ma comunque una base di partenza.
Si stima che dalla Cina verrà il 30% della crescita globale nei prossimi anni e nel 2025 sarà il mercato di consumo più importante. Quindi, oltre che un interessante mercato per l'export, resta anche uno importante per investimenti diretti che, come hanno dimostrato Germania e Francia, tirano l'export.
La Cina resta però un paese che pone limitazioni all'ingresso di investimenti esteri in alcuni settori, anche se la lista di questi è stata più che dimezzata rispetto a solo 3-4 anni fa: sono solo una trentina ora e un terzo riguarda la sfera militare. Una volta nel paese, poi, l'azienda straniera può essere ostacolata a volte, come nel settore finanziario, da requisiti per licenze o certificazioni diversi da quelli che si applicano alle aziende cinesi e deve fronteggiare, come le aziende private cinesi, la concorrenza di imprese pubbliche che ricevono sussidi diretti o indiretti dallo Stato.
Dall'altro lato invece, le aziende cinesi hanno incontrato storicamente pochi ostacoli in Europa che rimane uno dei continenti più aperti agli investimenti stranieri , anche se nell'ultimo anno le cose sono un po' cambiate in Italia e Spagna.
Gli accordi bilaterali esistenti sulla protezione degli investimenti tra Cina e molti paesi europei non risolvono questi squilibri. Quindi, allo scopo di garantire accesso al mercato su base reciproca ed eliminare le distorsioni dovute al ruolo delle aziende di Stato cinesi, sette anni fa l'Unione Europea e la Cina hanno avviato un negoziato su un accordo bilaterale sugli investimenti, Comprehensive Agreement on Investment (Cai).
I negoziati sono andati a passo molto ridotto i primi 5 anni ma hanno subito un'accelerazione dal 2018 in poi e soprattutto negli ultimi mesi, con la Cina chiaramente determinata a chiudere l'accordo entro la fine del 2020 e la UE che, sotto presidenza tedesca fino al 31 dicembre, vorrebbe raggiungere lo stesso scopo.
L'annuncio prima di Natale da parte dell'ambasciatore UE a Pechino su un accordo di principio è senz'altro incoraggiante, ma a esso non ha fatto seguito la trasparenza necessaria sui contenuti dettagliati. Pertanto, non si può che valutare questo accordo per "sentito dire" da parte di chi è più vicino ai negoziati.
Una cosa pare certa: le aperture cinesi sono reali e continuano sulla linea avviata già con la nuova Foreign Investment Law. I settori più interessati dall'accordo sarebbero quello dei veicoli elettrici, delle rinnovabili, delle telecomunicazioni e della sanità, settore quest'ultimo in cui la Cina avrà bisogno di ingenti investimenti nei prossimi 10 anni e in cui l'Italia ha dei player di eccellenza.
Anche sui sussidi alle aziende di Stato sono stati fatti progressi con un impegno cinese a renderli trasparenti e misurati. In cambio, l'Europa aprirebbe maggiormente agli investimenti cinesi nel settore energetico (alle aziende cinesi interessano molto le rinnovabili). Raggiungere un accordo finale anche in pochi giorni su queste aperture settoriali sembra del tutto possibile, così come anche sul meccanismo di risoluzione di controversie che è stato altro argomento difficile negli ultimi mesi.
Allo stesso tempo però il Parlamento Europeo, anch'esso poco informato dei contenuti negoziati, ha tracciato una specie di linea rossa chiedendo l'inserimento nell'accordo di un impegno per la Cina a sottoscrivere le due convenzioni ILO contro i lavori forzati, in riferimento alla questione di alcune aziende basate nel Xinjiang di cui la stampa europea si è occupata ripetutamente negli ultimi mesi, negata dalla Cina.
Sebbene la lista dei paesi che non hanno ratificato una o entrambe le Convenzioni ILO includa nomi sorprendenti, il paletto posto dal Parlamento Europeo è comprensibile, ma rischia di deragliare una trattativa arrivata ormai agli sgoccioli, in una fase in cui la Cina ha bisogno di dimostrare di essere in grado di fare accordi con la UE.
Può darsi che un giorno la Cina deciderà di aprire quei settori comunque a tutti (e non solo alle aziende europee) e fare riforme del sistema dei sussidi, ma è difficile da prevedere: il Phase 1 Agreement del 2019 con gli USA non includeva la UE. Ogni trattativa si risolve sempre all'ultimo minuto, come Brexit dimostra, ma in futuro ci sarà bisogno di chiarezza su cosa l'Europa cerca veramente dai suoi partner commerciali. Se la linea è quella suggerita stavolta dal Parlamento Europeo essa dovrà applicarsi, rigorosamente, a qualsiasi partner. (riproduzione riservata)
* Marco Marazzi è avvocato e presidente Easternational