Il processo di mining di cripto monete può mettere a rischio gli obiettivi di riduzione delle emissioni fissati dalla Cina. A rivelarlo uno studio congiunto di ricercatori appartenenti alla University of the Chinese Academy of Sciences, alla Tsinghua University, alla Cornell University e alla University of Surrey.
Al 2024 il consumo di energia in Cina legato all’attività di estrazione dei bitcoin ossia all’esecuzione di calcoli che necessitano di dispendio di energia e dell’utilizzo di hardware sempre più sofisticati, dovrebbe raggiungere il picco: 297 terawatt-ora, più del consumo italiano nel 2016, sottolinea lo studio. Nello stesso anno le emissioni legate al settore raggiungeranno quota 130 milioni di tonnellate.
Lo studio chiede azioni al governo. Nella Repubblica Popolare l’attività di estrazione è diffusa soprattutto nelle aree ricche di risorse e dove minore è il costo dell’energia, come la Mongolia Interna, il Sichuan, lo Yunnan e lo Xinjiang. Il presidente cinese Xi Jinping ha preso lo scorso settembre per raggiungere il picco delle emissioni di carbonio prima del 2030 e la neutralità (emissioni nette di anidride carbonica pari a zero) entro il 2060.
Circa il 90% delle emissioni di CO2 della Cina proviene dalla produzione elettrica e termica, dall'industria e dai trasporti, dove la prima rappresenta la metà del totale.
Una prima stretta è stata annunciata dalla Mongolia Interna (uno dei grandi hub mondiali del mining). Il territorio rappresenta l’8% delle attività mondiali di mining di bitcoin (davanti addirittura agli Stati Uniti, che coprono il 7,2%), secondo i dati forniti da Cambridge Bitcoin Electricity Consumption Index. Un grande business il cui sviluppo è stato reso possibile negli anni grazie al basso costo dell’energia legato alla presenza di vasti giacimenti di carbone, che costituiscono circa un quarto delle riserve mondiali. Il tema va poi inserito nell’ambito dell’offensiva portata avanti dalla Cina contro le criptovalute. (riproduzione riservata)