Interpretare il confronto tra Usa e Cina come una semplice guerra commerciale è semplicistico. “Si tratta di un confronto sulla diffusione della tecnologia cinese nel settore strategico delle telecomunicazioni e quindi in ultima istanza mosso anche da considerazioni di natura militare e di geopolitica”. Pertanto una reale soluzione sarà quasi impossibile da trovare, sebbene i mercati siano convinti che la questione sia soltanto economica e si continui a sperare in un punto d’incontro.
Maurizio Novelli, gestore del Lemanik Global Strategy Fund, parte da questa premessa nel descrivere a colloquio con Class Editori il momento “molto delicato” attraversato dall’economia globale. Alla fine, dice, Washington e Pechino potrebbero non trovare una vera soluzione e ripiegare su qualche intesa di facciata che non va alla radice del problema. In gioco infatti, “c’è il futuro della tecnologia nel settore delle telecomunicazioni a livello globale”.
Entrambi i contendenti, spiega ancora Novelli, cercano di fare leva sul punto debole dell’avversario. Gli Usa di Donald Trump colpiscono i cinesi sul fronte del commercio, viceversa la Repubblica popolare può attaccare gli Stati Uniti dal punto di vista finanziario, riducendo i flussi di acquisto sul debito USA.
Uno scontro che avviene in un momento di debolezza dell’economia mondiale che, spiega di Novelli, deriva non tanto dalla guerra commerciale in atto che è solo iniziatama dalla contrazione del credito al consumo negli Stati Uniti e dalle difficoltà della domanda interna in Cina.
Sulla crescita grava il fardello di una strategia di espansione dell’economia globale che negli ultimi anni si è affidata all’eccessivo indebitamento. Nel 2018 il debito estero degli Stati Uniti ha raggiunto il 50% del pil contro il 22% del 2007: un ritmo di creazione di debito “insostenibile”.
Il meccanismo richiede un’esagerata allocazione di risparmio globale sugli asset americani e sul dollaro, ed espone l’intero sistema a un’elevata concentrazione di rischio sui mercati finanziari Usa. Attualmente gli investitori esteri detengono il 50% di tutti i corporate bond Usa, il 30% dei titoli di Stato e il 25% della capitalizzazione del mercato azionario Usa. Si tratta della più elevata allocazione di risorse dall’estero riscontrata solo nel 1928 e nel 1999.
Anche il calo di quote del debito statunitense in mano a Pechino non va letta in relazione allo scontro commerciale. Nota Novelli che si tratta di un processo in atto, gradualmente da ormai due anni, anche per ridurre la propria dipendenza dal dollaro. In ogni caso non un’arma commerciale. “la Cina non ha alcun interesse a forzare una crisi finanziaria”. Però “Pechino continua nella riduzione delle posizioni sui treasury bond statunitensi così da far rientrare riserve valutarie per contrastare il rallentamento dell’economia”.
Risorse e stimoli che serviranno a toccare i target di crescita stabilii e a mettere sotto controllo il debito pubblico. Questo meccanismo, ha però ammonito nel corso di un evento tenuto la scorsa settimana a Milano, innesca una riduzione del finanziamento al debito americano e pone potenziali problemi per la tenuta del dollaro, che a questo punto deve sperare in una crisi nell’area euro per rimanere forte e continuare ad attirare capitali dal resto del mondo per finanziare debito e crescita economica sempre più dipendente dalla leva finanziaria.