Dall'8 gennaio non sarà più necessario fare la quarantena per entrare in Cina. La velocità con cui il paese ha archiviato la sua "zero covid policy" fin dalla seconda settimana di dicembre è impressionante ed ha colto molti di sorpresa, a partire dagli stessi cinesi. La mossa si aggiunge infatti ad un notevole rilassamento delle restrizioni di viaggio all'interno del paese che negli ultimi 12 mesi sono stati il vero ostacolo all'operatività delle aziende.
Mentre la stampa internazionale è piena delle immagini già viste nella fase iniziale di altri paesi che hanno deciso di "vivere con il Covid", i cinesi - e Pechino ne è un esempio - stanno cominciando a comprendere ed accettare il cambio di strategia e a cercare di riprendersi una vita rimasta in sospeso per più di un anno.
Le aziende soffrono ancora per le assenze dei loro dipendenti contagiati, ma come ha confessato un imprenditore, azionista di società cinese quotata in Borsa, è un "dolore di breve periodo", mentre con il sistema precedente era del tutto impossibile pianificare qualsiasi attività dato il rischio costante di chiusure e lockdown repentini di intere aree di una o più città dove opera la sua azienda.
Passati questi mesi che si prospettano senz'altro difficili, il paese dovrebbe tornare a una quasi normalità anche se per raggiungere quella piena e una revisione di tutte le varie regole che facevano da contorno alla zero covid policy si deve attendere forse un anno.
Per esempio, l'aumento dei voli non sarà che graduale, e probabilmente per tornare alle centinaia di migliaia di ingressi giornalieri del 2019 bisognerà attendere il 2024. Ora che il paese riapre sia verso l'esterno che soprattutto al proprio interno l'Italia deve porsi alcune domande, in relazione ai rapporti bilaterali, e riprendere il filo di un discorso spezzato dalla politica zero covid.
1. Cosa fare del Memorandum del 2019 sulle Vie della Seta? Non è un percorso agevole: la valenza del Memorandum era soprattutto politica più che economica anche se l'idea era che i benefici economici sarebbero seguiti. Però, una decisione di non rinnovarlo assumerebbe contorni politici che possono avere riflessi sproporzionatamente negativi su quelli economici, a vantaggio di nostri concorrenti europei che invece il Memorandum non l'avevano mai firmato.
2. Cosa fare dell'accordo sugli investimenti tra Cina e UE, il famoso "CAI"? Che posizione prendere come Italia su una possibile riapertura di questo capitolo dopo due anni di ghiaccio ventilata da Michel e da Scholz durante le loro recenti visite a Pechino? Sarebbe utile riprendere il filo ricordando che il testo del CAI su cui si sono chiusi i negoziati nel dicembre 2020 serviva e serve soprattutto alle aziende europee e quindi italiane che operano in Cina.
3. Come stimolare l'export italiano verso Cina? Il calo dell'attività economica in Cina degli ultimi mesi ha portato a segni negativi per le importazioni in generale e le esportazioni italiane hanno accusato il colpo, ma l'invito fatto da Xi Jinping all'Italia a partecipare come paese d'onore alla prossima International Consumer Goods Fair depone bene. ICE e camere di commercio devono riprendere il filo di tutti quegli strumenti di promozione del nostro export rimasti nel limbo negli ultimi 3 anni, a partire dal digitale. In parallelo, i governi devono lavorare sull'aumento dei voli diretti da Italia verso almeno le 3-4 principali città cinesi.
4. L'investimento diretto italiano in Cina tradizionalmente è stato molto più limitato di quello tedesco o francese per non parlare di americani o giapponesi. Va ormai capito da parte della politica in primis e delle associazioni degli imprenditori che chi investe in Cina non "delocalizza", anche perché sui costi ci sono paesi ora più competitivi, ma che invece investe per il mercato locale. La tendenza "local for local" specie in alcuni settori non potrà che aumentare: aspettarsi di poter competere esportando da Italia con un concorrente tedesco o americano che produce in loco è un'illusione.
5. Gli investimenti cinesi in Italia. Conversazioni formali ed informali con imprenditori cinesi sia del settore statale che privato indicano ormai da tempo che l'Italia, a causa anche di scelte dell'ultimo governo, è percepita come un paese meno aperto di altri ad investimenti cinesi specie se questi prendono la forma - come peraltro gli investimenti americani giapponesi o francesi degli ultimi 30 anni - di acquisizioni.
Questo "feeling" generale può a lungo andare compromettere i rapporti e complicare anche la vita di aziende italiane in Cina: a livello governativo vanno date chiare linee guida, se possibile ex ante, su quali settori sono aperti e quali sono invece chiusi all'investimento cinese; si presume siano gli stessi che sono aperti o chiusi ad investitori di altri paesi extra UE; se così non fosse diventerebbe difficile spiegarlo. (riproduzione riservata)
* avvocato, partners studio Baker & McKenzie, membro cda Iccf