Significativa mossa cinese sul piano dei rapporti economici con l'Occidente: dopo 15 anni, la Cina ripropone l’emissione di obbligazioni, garantite dallo stato, nella moneta dell'Europa, l'euro. L’ultima volta che accadde l’Unione europea non era stata ancora attraversata né dalla crisi finanziaria del 2008 né da quella del debito del 2011.
L’operazione, ancora allo studio, punta in primo luogo a beneficiare dei bassi costi di indebitamento nella moneta europea, grazie alle politica monetaria accomodante della Banca centrale guidata da Mario Draghi, il cui mandato scade il primo novembre prossimo. D'altra parte non sfugge che la mossa segna un'indicazione di fiducia nell'economia europea, in un momento di forte tensione con l'America.
L’ultimo collocamento sovrano cinese in euro (e in dollari) risale al 2004. Si trattò di due tranche a cinque e dieci anni per complessivi 1,7 miliardi. Da allora Pechino ha ritenuto di andare sul mercato in yuan per favorire il processo di internazionalizzazione della propria divisa.
Un processo che potrebbe anche concretizzarsi con il passaggio dal dollaro allo yuan nelle contrattazioni per il petrolio. Già due anni fa però i cinesi avevano deciso di guardare nuovamente alla valuta verde, riaffacciandosi sul mercato con un collocamento a Hong Kong da 2 miliardi di titoli a cinque e dieci anni.
A ottobre dello scorso anno Pechino aveva quindi piazzato 3 miliardi di dollari in titoli sovrani, suddivisi in 1,5 miliardi con scadenza 2023; 1 miliardo al 2028 e 500 milioni al 2048. Anche questa volta, secondo quanto riporta Bloomberg, gli euro dovrebbero accompagnarsi a un nuovo collocamento in dollari.
Con un mercato obbligazionario interno da 13 mila miliardi di dollari, aperto ulteriormente a investitori stranieri tramite la connessione tra i listini locali e quello di Hong Kong, la Repubblica popolare non avrebbe bisogno di piazzare il proprio debito sovrano sui mercati offshore. Pechino cerca però di ritagliarsi un ruolo di porto sicuro rispetto al debito statunitense.
Sullo sfondo c’è però anche il rallentamento della seconda economia al mondo. Da inizio anno il governo ha profuso sforzi e risorse per tenere il ritmo di crescita al passo con gli obiettivi fissati che per il 2019 si collocano tra il 6,5% e il 6%. Gli ultimi dati indicano che fine anno la crescita si assesterà sulla parte bassa della forchetta.
E il prossimo anno, secondo le proiezioni del Fondo monetario internazionale, il Paese potrebbe scendere sotto la soglia psicologica del 6%, crescendo del 5,8%,con percentuali invidiabili se viste dall’Europa, ma lontane dalle cavalcate a doppia cifra che avevano contraddistinto il decennio d’oro nella prima parte degli anni 2000.
Già lo scorso agosto un rapporto del centro studi governativo National Institution for Finance & Development evidenziava la necessità per la Cina di tollerare un «aumento moderato» dell’indebitamento, «in particolare quello del governo centrale» per stabilizzare l’economia. A fine giugno il rapporto debito pil cinese era attorno al 38,5%. Nel caso cinese a preoccupare non è tanto il dato del governo centrale, quanto la somma con il debito delle amministrazioni locali, delle famiglie e delle imprese che porta la percentuale attorno a al 300%. Una politica andata di pari passo con la progressiva riduzione dell’esposizione sul debito statunitense.
Ad aprile intanto Bloomberg Barclays ha incluso nei propri indici le obbligazioni cinesi. JP Morgan Government Bond-Emerging Market Global Diversified, il principale benchmark per gli investitori, e Ftse World Government Bond ancora no. «Ci aspettiamo che seguano presto l’esempio di Bloomberg Barclays», scrive Edmund Goh di Aberdeen Standard Investments, «stando alle nostre stime, ciò potrebbe attrarre tra 250 e i 350 miliardi di dollari da fondi passivi».