Smentendo i mentori della deglobalizzazione, gli scambi commerciali tra la Cina e i quattordici Paesi dell'area Pacifico e sud est Asiatico, aderenti al Rcep. è cresciuto del 7,5% nei primi sette mesi di quest'anno, rispetto al medesimo periodo dell’anno precedente, quando il Rcep non era in vigore. In luglio gli scambi commerciali nella medesima area sono schizzati del 18,8% mentre lo scambio con l’area Asean è salito del 13,2%, mentre tra Cina ed Unione Europea la crescita è stata dell’8,9% e con gli Stati Uniti dell'11,8%, anno su anno.
Il Rcep (Regional Comprehensive Economic Partnership) coinvolge da un lato la Cina e i 10 stati aderenti all’Asean (Associazione del Sud Est Pacifico) con, per la prima volta, quattro nuovi attori: l’Australia, il Giappone, la Nuova Zelanda e la Corea del Sud.
È entrato in vigore il primo gennaio scorso, dopo una lunga gestazione non solo procedurale con la firma stabilita per ogni singolo Stato entro il 2021, fatte salve alcune firme giunte all’inizio del 2022, ma anche di merito con una accesa discussione che ha occupato gli ultimi cinque anni.
Il bacino di utenza comprende un terzo della popolazione dell’Asia-Pacifico con il 30% del prodotto domestico mondiale che dovrebbe traguardare il 50% nel 2030.
Il bilancio del primo semestre 2022 e del mese di luglio appena terminato è, quindi, positivo anche se il rodaggio per giungere all’assetto finale della completa liberalizzazione commerciale prevista necessita di qualche anno.
Dall'entrata in vigore, il 65% delle tariffe è stato abolito, il resto delle tariffe fino al 90% verrà meno entro vent’anni.
Un primo beneficio evidente è quello definito delle “Rules of origin” e cioè gli esportatori hanno come condizione per qualificare la tariffa preferenziale, quando esportano ad altri Stati membri, di procurare solo il 40% delle materie prime per singolo prodotto finale.
Tuttavia, nonostante i numeri positivi del primo semestre, si fanno già sentire alcune lamentele. In occasione del meeting dell’Asean, tenutosi a Phnom Pen nei primi giorni di agosto, la prima voce di dissenso è stata quella della Cambogia, che ha peraltro già in atto un FTA, free trade agreement, con la Cina.
Questo accordo avvantaggia la Cambogia che può avvalersi della liberalizzazione delle tariffe in export per il 90% dei propri prodotti mentre con le clausole del Rcep, per avere lo stesso risultato, dovrebbe attendere vent’anni. Nel caso del settore del tessile, in particolare per i tessuti lavorati a maglia, con FTA non esistono dazi, mentre seguendo il Rcep occorrerebbero 15 anni per un risultato analogo.
Un’altra peculiarità contenuta nel FTA concerne i prodotti agricoli e agroindustriali la cui produzione o processo deve essere completamente effettuata sul territorio cambogiano così da scoraggiare Australia e Nuova Zelanda a produrre in Cambogia in virtù delle rules of origin per poi commercializzare soprattutto i prodotti lattiero-caseari sul mercato cinese.
Le riserve manifestate da altri stati aderenti al Rcep riguardano il fatto che il contenuto del trattato sia erga omnes ovvero l’obiettivo della disciplina di liberalizzazione completa abbia tempi ventennali rispetto ad accordi bilaterali nell’ambito dei FTA.
Inoltre è stata criticata ex post la clausola relativa all’eliminazione dei sussidi nell’export di prodotti agricoli. Rimane comunque quanto valido contenuto nell’articolo 2.6 che prevede che "nulla in questo Trattato dovrebbe precludere le parti ad accelerare o a migliorare lo schema delle tariffe" secondo il principio del mutuo consenso esteso successivamente agli altri Stati.
«Il Rcep non sarà una competizione da superare per ognuno degli Stati membri», ha spiegato in proposito Stephen Olson, responsabile di Hinrich Foundation di Hong Kong, «è un accordo con ambizioni modeste che affranca da un numero significativo di barriere e restrizioni. Molti membri hanno già accordi bilaterali FTA che garantiscono un medesimo beneficio o persino più ampio. Il Rcep costituisce una sorta di ombrello di protezione oltre questi accordi”.
Ma la domanda che nasce spontanea è se oggi un trattato che coinvolge quindici stati asiatici possa mantenere un’efficacia giuridica per i prossimi vent’anni in un contesto di sommovimento geopolitico che affastella diverse componenti non solo economiche ma che non possiede la pervasità di un filo conduttore ideologico o semplicemente di idealità politica.
Se l’obiettivo primario è quello di esportare da parte della Cina una varietà di prodotti qualora vi sia un calo verso i mercati europei ed americani, sicuramente il trattato può avere ragione d’essere per questo paese e per converso per gli altri stati membri per avere uno sbocco privilegiato nel più grande mercato mondiale. Ne fa testo la Corea del Sud che risulta essere stato dei membri più attivi negli scambi con la Cina negli ultimi sette mesi.
Vi sono comunque aspetti positivi interessanti a corollario del trattato: le transazioni cross-border in yuan a discapito del dollaro che pone la valuta cinese in un paniere protetto ed alternativo al dollaro stesso, considerando la massa di transazioni.
Poi c'è l’interconnessione con la Belt&Road (BRI), perché alcuni Stati membri sono anche parte attiva degli investimenti BRI quali Malesia e Singapore, e questo status potrebbe rafforzare o meglio aiutare questo faraonico progetto che oggi è in una soglia critica dovuta al rapporto tra investimenti e ritorno degli stessi. Infine non va trascurata la cooperazione doganale e le facilitazioni per l’e-commerce.
Su questa scia SPG (Shandong Port Group), il maggiore operatore portuale basato sulla costa orientale cinese, ha lanciato cinque nuove rotte marittime e una rotta intermodale ferroviaria e marittima dal porto di Qingdao con destinazione Vietnam, Tailandia e Malesia, soluzioni per facilitare in particolar modo il trasporto di prodotti freschi e la sua relativa catena del freddo per i prodotti provenienti dal bacino del sud est asiatico.
«La compliance della Cina alle regole commerciali stabilite dal Rcep contribuirà ad aiutare il livello di apertura e di virare verso un’integrazione industriale e di fornitura della catena del valore tra gli stati aderenti iniettando nuova linfa per il recovery dell’economia globale», ha avvertito Cui Fan, professore emerito presso la University of International Business and Economics, China. (riproduzione riservata)
*presidente di Savino del Bene Shanghai Co. Vive e lavora a Shanghai da oltre 25 anni