Per la politica estera italiana degli ultimi anni e specie degli ultimi mesi, la gestione del rapporto con la Cina è stata uno degli esercizi più difficili. Alcuni dati di fatto aiutano a inquadrare il problema:
1. L'aumento dell'interscambio tra Italia e Cina, con un +43% trimestre su trimestre dell'export italiano nei primi 3 mesi di quest'anno.
2. L'aumento consistente degli investimenti stranieri in Cina, dovuto in parte anche alla nuova legge entrata in vigore l'anno scorso che semplifica le procedure. Nel 2020 la Cina è stata la prima destinazione di investimenti al mondo e nel primo trimestre 2021 l'aumento è stato del 24,8% rispetto al 2019.
3. Il calo consistente degli investimenti cinesi all'estero, che però sembra solo temporaneo. A questo si affianca una presenza di investimenti diretti cinesi in Italia molto modesta (15,6 miliardi in tutto negli ultimi 10 anni), rispetto agli altri paesi UE.
4. L'accordo Phase 1 tra Cina e USA, firmato nel gennaio 2020 dall'amministrazione Trump, che rafforza la tutela della proprietà intellettuale, apre settori all'investimento americano e, soprattutto, impegna la Cina a comprare 200 miliardi di merci e servizi USA.
5. La sospensione della ratifica del trattato sugli investimenti tra UE e Cina (il "CAI") su cui un accordo era stato raggiunto a dicembre 2020. Il CAI, negoziato per sette anni e molto voluto anche dalla Germania, serve a "livellare" il campo di gioco per le aziende europee operanti in Cina e quindi è strumento importante per chi ha investito o pensa di investire massicciamente nel paese. Il CAI apre poi anche ulteriori settori (automotive, healthcare, servizi finanziari, etc.) alle aziende europee.
Qual è la posizione dell'Italia in questo contesto? Roma sembra aver avuto un ruolo marginale nei negoziati finali sul CAI, anche se a beneficiarne - semmai entrerà in vigore - saranno anche le imprese italiane, soprattutto quelle medio-grandi.
Da parte della politica quindi non si sono sentite espressioni di rammarico all'annuncio della sospensione della ratifica. Questo forse perché, ancora oggi, l'Italia tende a considerare la Cina un mercato di export e non di investimento (10 miliardi più o meno gli investimenti diretti tricolori, mentre quelli tedeschi sono stati quasi 8 volte tanto), mentre il legame tra export e investimenti è ormai assodato: l'uno tira l'altro. Forse è ora di cambiare approccio: ci sono circa 2.000 aziende italiane presenti con proprie sedi in Cina, c'è spazio per crescere.
Per quanto riguarda poi i rapporti diretti con Pechino, fino a pochi mesi fa l'Italia era ritenuto il paese più vicino alla Cina in ambito G7, soprattutto dopo la firma del memorandum Belt & Road del marzo 2019, mentre oggi il governo sembra voler dare segnali meno amichevoli.
Secondo alcuni, è la stampa in gran parte negativa che influenza l'azione di governo. Secondo altri, questo sarebbe stato necessario invece per ribadire la "fedeltà atlantica". Eppure, chi segue i rapporti USA-Cina sa che i big di Wall Street non hanno mai smesso di crescere e investire sul mercato dei capitali e sulla borsa cinese, anche durante l'era Trump, così come start up e aziende high-tech cinesi hanno ripreso da tempo a quotarsi a New York.
Inoltre grazie all'accordo Phase 1, la Cina nel 2020 è stata la prima destinazione dei prodotti agricoli americani. Tra i primi temi di discussione annunciati dalla nuova rappresentate del commercio USA nel prossimo incontro con l'omologo cinese ci sarà appunto il rispetto dell'accordo Phase 1 da parte della Cina, e non solo i dazi (in parte dichiarati illegali dal WTO) imposti dalla precedente amministrazione. Insomma, con le aziende americane sembra "business (quasi) as usual".
Può darsi che mostrandosi "meno amici" forse si otterranno più concessioni, come tentò di fare Trump. Per ora però, mentre l'export italiano cresce trainato dalla ripresa cinese ma anche dal buon lavoro fatto negli anni precedenti dalle nostre istituzioni, i voli aerei diretti Italia-Cina continuano ad essere sospesi.
Formalmente per il Covid, ma guarda caso da Germania, Francia e Olanda si viaggia direttamente su Pechino o Shanghai già da un paio di mesi. Non c'è poi alcuna visibilità sulla possibilità di riconoscimento del nostro passaporto vaccinale né sulla ripresa dei visti d'affari per italiani. Sono aspetti che se non gestiti e risolti a breve possono favorire i nostri partner e concorrenti europei, per i quali poter viaggiare in Cina equivale a firmare contratti ed espandersi più velocemente di chi è confinato su una piattaforma Zoom.
Per quanto riguarda poi gli investimenti cinesi in Italia, il discorso si inserisce in quello generale di attrattività del paese per gli investitori esteri e in quello di politica industriale che deve poter identificare meglio di quanto faccia ora quei settori veramente "strategici" che si vuole lasciare in mani italiane. Questa è una riflessione che probabilmente il governo dovrà attivare comunque, nella consapevolezza che in un paese come l'Italia non tutti gli investimenti stranieri potranno essere "greenfield", anzi.
Al momento è difficile prevedere il destino del CAI: l'Italia non sembra voler spingere più di tanto, forse appunto perché ritiene la Cina solo mercato di export, e quindi il compito resterà probabilmente alla Germania e alla Francia (ma anche alla Cina, va detto). Un po' più prevedibile invece l'evoluzione dei rapporti USA-Cina in quanto la tradizionale realpolitik nei rapporti tra potenze condurrà ad un riavvicinamento nel nome di problemi globali: il clima, la riforma del WTO, il rafforzamento dell'OMS, l'esplorazione dello spazio.
Nell'attesa che le cose a questi livelli si chiariscano, l'Italia può pur sempre seguire un principio guida molto utile nei rapporti con la Cina: il proprio interesse nazionale, che include anche quello delle proprie aziende. (riproduzione riservata)
* avvocato, partner dello studio Baker Mckenzie