Per il terzo mese consecutivo la Cina ha continuato a ridurre la propria esposizione sul debito americano. A maggio l’ammontare di Treasury bond detenuti da Pechino è sceso a 1.110 miliardi di dollari, in calo rispetto ai 1.130 miliardi di aprile. Scorrendo le tabelle diffuse dall’amministrazione statunitense occorre arrivare al mese di febbraio per vedere l’ultimo aumento, anche se va sottolineato che le quote del Belgio, Paese solitamente utilizzato dai cinesi come proxy sono aumentate dai 179 miliardi di aprile a 190 miliardi in maggio. L’esposizione della Repubblica popolare propriamente detta è ai minimi da due anni, sebbene i cinesi rimangano i principali creditori di Washington davanti al Giappone.
Sullo sfondo c’è lo scontro commerciale con gli Stati Uniti. I colloqui sono in una fase di stallo. All’interno della dirigenza cinese non mancano le voci che spingono per utilizzare l’arma del debito statunitense in mano cinese come leva per strappare concessioni all’amministrazione di Donald Trump sul fronte dei dazi. Per Cao Yuanzheng, capo economista della Bank of China International, i movimenti sono «normali operazioni di mercato». La cifra di 2,8 miliardi in meno è considerata dagli osservatori cinesi poca cosa. Secondo la maggior parte degli analisti Pechino non intende provocare un sell-off. Prima di tutto perché non avrebbe a disposizione asset altrettanto sicuri, anche se negli ultimi tempi ha incrementato le proprie riserve auree. Inoltre non sarebbe nell’interesse cinese stressare Washington sul piano finanziario.
La progressiva riduzione dell’esposizione sul debito Usa procede da ben prima dell’inizio delle tensioni commerciali. La Nikkei Asian Review, individua nella perdita della capacità finanziaria una delle ragioni dell’inversione di tendenza.
Spiega Richard McGregor, senior fellow del Lowy Institute a Cnbc, che tutto ciò che Pechino farà a scapito del dollaro avrà ripercussioni sulle stesse riserve in dollari che detiene. I movimenti vanno letti come la volontà di far rientrare riserve valutarie per contrastare il rallentamento dell’economia e rimettere la crescita sul sentiero fissato dal governo di Pechino.
D’altronde, come evidenziato in questi giorni da MF-Milano Finanza, la crescita cinese, cresciuta nell’ultimi trimestri al ritmo più basso da 27 anni, dipende sempre di meno dalle esportazioni e sempre più dal mercato domestico. Secondo le stime di McKinsey, i consumi interni hanno contribuito per oltre il 60% alla crescita del pil della seconda economia al mondo.
Ripercussioni delle tensioni commerciali tra le due potenze si stanno invece registrando nella presenza della imprese straniere in Cina.
Sono infatti più di 50 le aziende che stanno spostando la produzione fuori dalla Repubblica popolare per aggirare le tariffe imposte dall’amministrazione Trump. In molti casi non si tratta soltanto di multinazionali a stelle e strisce o giapponesi, che alla Cina preferiscono il Vietnam, secondo alcuni osservatori destinato a poter diventare il prossimo bersaglio di Trump.
L’elenco include anche aziende cinese come la Tlc, che sta spostando in territorio vietnamita la produzione di televisori o la Sailun Tire, aziende dei pneumatici che guarda alla Thailandia.