Non possono stupire i dati macroeconomici relativi al mensis horrendus della fredda primavera cinese, che con qualche attenuazione indicano il precipitare nel vortice del 2020, anno dell’insorgere della pandemia.
La produzione industriale in aprile è calata del 2,9% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente e il retail è sceso dell’11,1% rispetto a marzo. Il tasso di disoccupazione è salito al 6,1%, peggior dato dal marzo 2020 che era stato del 6,8%. In questo dato manca però tutta la componente di lavoratori migranti (240 milioni) il cui flusso è di difficile computo.
Le vendite del settore immobiliare sono diminuite a valore in aprile del 46,6% in caduta libera con il 26,2% di marzo rispetto all’anno precedente. Solo i fixed assets compresi gli investimenti per le infrastrutture, che coinvolgono soprattutto i piani governativi, sono aumentati del 6,8% nei primi quattro mesi rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Infine l’inflazione è lievitata moderatamente ad aprile del 2,1% rispetto all'1,5% di marzo e i prezzi alla produzione (PPI) all’8% ad aprile in lieve diminuzione rispetto all’8,3% di marzo. Val la pena di rimarcare che la Cina è uno dei pochi Paesi al mondo con una tensione inflattiva relativamente modesta rispetto ad USA ed Europa.
Non poteva essere diversamente con un lockdown a Shanghai iniziato il 28 di marzo e ancora in essere, anche se dovrebbe essere maturata qualche aspettativa di rimozione dei sigilli durante questa settimana sino ad una graduale riapertura dal 1 di giugno.
Se comunque questa decisione dovesse confermarsi si arriverà tra poco al giro di boa dei sessanta giorni per 25 milioni di cittadini, senza menzionare le altre 43 città, Pechino in testa, in forme diverse di lockdown che hanno coinvolto circa 400 milioni di persone.
In particolare a Shanghai le ultime tre giornate dello scorso weekend, qualificate con lo status di “silence period” ovvero di completo isolamento tra chi vive all’interno del compound ed il resto del mondo, dovrebbero essere considerate come l’ultima tappa in preparazione alla graduale riapertura.
Quali strascichi ha lasciato questo modello di presidio pandemico scelto e confermato anche di recente dal Governo Centrale in funzione del raggiungimento della zero Covid policy? Quanto tempo richiederà la presunta normalizzazione delle attività produttive, dei servizi e del retail?
Sono tutte domande lecite se questo discutibile modello potrà garantire nel breve medio termine il conseguimento dei risultati prefissati. Ma se non lo dovesse essere, a quanto sono valse le costrizioni e le rinunce della popolazione?
L’Europa, per contro, ha rivisto le norme che richiedevano il green pass e le sequenze di tracciamento e ora si percepisce, per chi è giunto dalla Cina, una sensazione di voglia di vivere rinata come l’araba fenice dal cupo tramonto shanghainese lasciato alle spalle in direzione dell’areoporto di Pudong, normalmente uno dei più importanti al mondo con 800 voli al giorno ma oggi appena una decina.
Se effettivamente da giugno ci sarà un’apertura modulata il guardarsi indietro apparirà come i terreni circostanti ad un fiume esondato, ricchi di fanghiglia e di arbusti sradicati.
La Cina, da cui sono partiti nel 2021 240 milioni (in teu) di container, dovrà recuperare nel secondo semestre per garantire al mondo il prodotto finito ed i semilavorati, entrambi necessari per la vitalità delle imprese occidentali già alle prese con l’aggravio dei costi energetici in Europa.
La Cina, nella sua duplice valenza di produttore e consumatore mentre nell’Occidente abbiamo prevalentemente solo la leva dei consumi, diventerà sempre di più il punto di equilibrio del mondo e nello stesso tempo suo punto di forza.
Anche perchè il ragionare sul riposizionamento delle produzioni a medio termine oggi viene raffreddato dal vincolo energetico per l’Europa e dalla logistica distributiva delle commodities primarie ovvero le risorse naturali, specialmente le terre rare, per il resto del mondo.
Il pensare che si possa muovere solo la metà dei container partiti dalla Cina da altri siti produttivi è qualcosa di irrealizzabile. Il logorìo della globalizzazione e “dell’ortodossia globalista” (definizione di Giulio Tremonti) sta provocando una serie di tentativi di exit strategy senza soluzione, a meno di aspettarsi, fatto non probabile, una rapida soluzione del conflitto ucraino che potrebbe almeno ripristinare le vie delle risorse energetiche.
A tal proposito, si sono messe in luce, nei giorni scorsi, due prese di posizione di difficile conciliazione: da un lato il mercato azionario dei titoli tecnologici che, secondo JP Morgan, potrebbero riscattarsi a breve sul mercato di Hong Kong e Shanghai; dall’altro, la AmCham (Camera di Commercio americana in Cina) affermava che il costo del decoupling potrebbe essere significativo e generare vincitori non ben identificati, auspicando invece un riavvicinamento fra le posizioni in tempi brevi delle due potenze mondiali.
Ed è quello che Henry Kissinger esprimeva in una recente intervista in occasione del convegno “Big ideas 2022”, organizzato dal Financial Times: “È tempo di riaprire le relazioni con la Cina anche se ideologicamente vi sono delle diversità proprio come era stato fatto mezzo secolo fa”, al fine di evitare quanto 180 società multinazionali hanno lamentato, secondo Bloomberg News, di conseguenze finanziarie negative nel primo trimestre di quest'anno a seguito della paralisi produttiva e dell’interruzione della supply chain dovuta al persistere del lockdown cinese. (riproduzione riservata)
*managing director a Shanghai di Savino Del Bene, azienda di trasporti internazionali e logistica. Vive e lavora in Cina da oltre 25 anni