Le imprese europee intendono restare saldamente agganciate al treno cinese. È quanto emerge da un sondaggio realizzato dalla Camera di Commercio europea in Cina, che associa 1.700 imprese attive nel Dragone, con Roland Berger, che conferma quanto emerso da un-analoga rilevazione promossa dalla Camera di commercio italiana in Cina tra le imprese italiane.
Solo un’azienda europea su 10 sta valutando di dirottare gli investimenti pianificati nel Paese asiatico su altri mercati limitrofi o più vicini al proprio quartier generale. Il dato è in contraddizione rispetto alle dichiarazioni rilasciate dagli stessi imprenditori al termine del primo trimestre dell'anno scorso quando all’apice della pandemia in Cina molti avevano pensato di poter creare altrove catene produttive più resistenti.
Nel frattempo, le stesse imprese si sono anzitutto rese conto di non poter fare a meno di una presenza sul più grande e dinamico mercato al mondo. Il 51% degli intervistati ha confessato di aver generato nel 2020 margini in Cina più alti rispetto alla media globale, con una crescita del 13% rispetto al 2019. Con quasi 1,4 miliardi di abitanti e una classe media sempre più benestante, infatti, il Paese offre occasioni di crescita formidabili per i marchi europei che non possono rinunciare a un presidio.
Lo dimostra, per esempio, la volontà di Stellantis di trovare una strategia di successo per sfondare in Cina, il principale mercato per vendite di automobili. Per venire incontro ai gusti locali ed evitare gli ostacoli geopolitici, quindi, molte multinazionali stanno investendo per rendere autonoma e personalizzata la loro produzione in Cina. Lungi dal delocalizzare, in altri termini, puntano a sdoppiare strategia e infrastrutture industriali, adottandone una per il Paese asiatico e una per gli altri mercati internazionali.
Il processo di disaccoppiamento (decoupling) è però tutt’altro che semplice e per alcune imprese europee si rivela al momento irrealizzabile. Solo un quinto delle imprese europee è autonomo nell'approvvigionamento critico dalla Cina e potrebbe perciò in teoria rilocalizzare del tutto la propria catena produttiva.
Un’azienda su tre (34%), secondo il sondaggio, importa invece dalla Cina componenti o macchinari essenziali alla propria produzione che non sono reperibili altrove. Basti pensare alle cosiddette terre rare indispensabili per molte apparecchiature tecnologiche su cui Pechino detiene un quasi monopolio. Un altro 50% degli intervistati ritiene invece che le alternative esistenti all’estero non possano a oggi competere con i fornitori cinesi per costi, qualità o compatibilità.
Non stupisce allora che l’Unione europea e ancor di più gli Stati Uniti abbiano varato massicci piani di investimento per sviluppare filiere sovrane in settori critici come quello dei semiconduttori o delle terre rare. Il processo richiederà però tempo, anni se non decenni, durante i quali molte imprese europee rimarranno dipendenti dalla Cina con tutti i rischi e le opportunità che ne conseguono.
Il 45% dei sondati ha incontrato barriere all’accesso nel mercato locale, il 44% si ritiene oggetto di comportamenti discriminatori rispetto alle controparti domestiche e, nonostante i progressi compiuti negli ultimi anni, il 16% ha ancora dovuto trasferire nel Paese tecnologie e know-how dietro imposizione delle autorità amministrative cinesi. (riproduzione riservata)