In questo ultimo periodo ma soprattutto in questi ultimi due mesi l’economia mondiale appare come un aggregato caratterizzato dal fenomeno della discontinuità.
Infatti la dinamica del mutamento di posizioni sfiora ormai i mesi se non le settimane. Al Bo’ao Asia Forum del 26 marzo scorso tutti erano in attesa di una conclusione positiva dell’accordo che potesse porre fine alla tanto contrastata Trade war. Invece, un mese dopo, vi è stato il ribaltamento della posizione da parte degli Stati Uniti.
A seguito di ciò, tra i rappresentanti delle imprese estere in Cina si sta alimentando il convincimento (per le decisioni finali bisogna ancora attendere) che forse sarebbe preferibile spostare alcune produzioni in altri paesi comunque appartenenti a quest’area geografica. L’industria dell’abbigliamento è orientata al Bangladesh che sta ricevendo ordinativi per la prossima stagione primavera/estate di gran lunga superiore alle medie degli ultimi anni.
Diverso comunque è spostare la supply chain su fornitori localizzati in altri Paesi dal trasferire produzioni con implicazioni di individuazione delle aree e di realizzazione di unita’ produttive.
Il dato di fatto a oggi è che le previsioni di crescita in Cina per l’anno corrente dovrebbero attestarsi su di un punto percentuale inferiore a quanto previsto a inizio anno e la base produttiva cinese inizia a risentire di qualche difficoltà negli ordinativi.
Uno degli importanti segnali indicatori è il volume dei container (in teu, l'unità di misura, twuenty-fott equivalent) che escono dai dieci più rappresentativi porti marittimi cinesi: secondo Mody’s Investors Service report, non vi sarà incremento quest'anno, mentre nei due anni precedenti si aveva avuto rispettivamente una crescita del 4,7% nel 2018 e del 8,3% nel 2017. Un segnale da non sottovalutare proviene anche dal commento di imprese cinesi: ancorché tra le top 500, non sprigionano ottimismo per questa situazione di avvolgimento su se stessa come un movimento elicoidale.
Ancorché il primo trimestre in Cina sia sempre stato considerato in modo critico soprattutto a causa delle festività del Capodanno cinese che obbligano a tempi più o meno lunghi di forzata chiusura delle aziende, quest’anno la lettura dei dati scollina nel secondo trimestre.
Ovviamente tutti gli argomenti che stano affastellando le conversazioni e le analisi hanno una validità intrinseca: dapprima i dazi, poi le vicende Huawei, le prese di posizione di alcune aziende americane quale Google sul sistema Android, le terre rare e forse, a breve, qualcosa di nuovo si potrebbe prospettare sul tavolo della discussione globale.
Ma per noi che viviamo e gestiamo aziende in questo Paese che fare?
Prima di giungere a quella rappresentazione che è ritornata in voga dal 2007-20012 di “worst-case scenario” collegato al concetto di tempesta perfetta quale fenomeno meterologico, è necessario ripartire il quadro produttivo in alcune categorie.
La prima sono le aziende di supply chain con fornitori in Cina ma anche in altri paesi del South East Asia già certficati e qualificati in termini di prodotto/processo. In questo caso è abbastanza semplice trasferire gli ordinativi in altri luoghi differenti dalla Cina.
Ci sono poi le aziende che producono in Cina con materie prime o semilavorati provenienti da Paesi limitrofi.In questa circostanza si rende necessario individuare aziende in quegli stessi Paesi che possano attivare la produzione coordinando e concentrando in modo nuovo la catena del valore.Per questa categoria il Paese più titolato rimane il Vietnam con una dei sistemi economici più aperti dell’area in oggetto soprattutto per il tessile e i beni elettronici di consumo. Foxconn, che aveva costituito nel recente passato città di produzione come quella di Zhengzhou, nel cuore della Cina centrale,ha mosso parte della stessa in Vietnam. Seguono poi nella lista Malaysia e Thailandia con differenziazioni rispetto per esempio alla problematica dei salari.
Terza categoria, le aziende che dipendono completamente dalla Cina per la produzione (OEM-Original equipment Manufacturer) o per le materie prime e semilavorati.
Per queste ultime il ripartire da zero in un altro paese non è semplice, anche e specialmente in termini di risorse umane. In Cina, paese oramai tecnologicamente avanzato, sono disponibili mediamente risorse umane qualificate, sia operai che laureati, difficili da reperire ma presenti; per queste figure le aziende hanno promosso percorsi formativi e di addestramento.
Non è semplice, anche se non impossibile, garantire in tempi brevi un modello di successo in un altro Paese anche se da una survey dell’AmCham (Camera di commercio americana) il 41% delle imprese intervistate sta valutando una relocation focalizzata nel South East Asia e solo il 6% vorrebbe ritornare negli USA.
Dal mio modesto punto di vista, è importante in questo momento essere resilienti.
Vorrei chiudere con un breve accenno storico all’Inghilterra del 1815: a quel tempo, appena emanata la Corn Law con la quale si iniziava il protezionismo colpendo con i dazi il grano importato dall’estero, l’economista David Ricardo scrisse un pamphlet dove spiegava come l’introduzione dei dazi avrebbe avuto conseguenze negative per lo sviluppo dell’economia confermando la sua posizione per il libero commercio. Le tematiche sono reiterate e ricorrenti e negli ultimi due secoli si sono sempre trovate le soluzioni uscita: l’augurio è che anche in questo caso si vada in tal senso.
* general manager di Savino Del Bene, azienda di trasporti internazionali e logistica, attiva in Cina da oltre 25 anni.