A Pechino si sta svolgendo la seconda edizione del Belt and Road Forum, il progetto cinese che vorrebbe connettere l’Asia e l’Europa per promuovere il commercio e gli scambi. Cosa raccoglierà da questo incontro l’Italia dopo l’incontro con il presidente cinese Xi a Roma del mese scorso, e la firma del memorandum of Understanding con l’adesione dell’Italia al progetto? La risposta è semplice: nulla!
Chi si immaginava un incontro che avrebbe portato tanti contratti commerciali per l’Italia resterà deluso perché progetti ed opportunità si costruiscono con il tempo. Se altri Paesi, come la Francia, riescono invece a trovare sempre qualcosa da firmare o celebrare, è perché ci si arriva dopo tanto lavoro e negoziazioni durate mesi e con le organizzazioni interessate presenti in Cina da anni.
Ci meravigliamo degli “altri” che arrivano a Pechino e se ne vanno via con i portafogli colmi, ma questo è il risultato di una strategia generale di approccio e apertura verso la Cina che dura da decenni. Francia, Paesi Bassi, Germania, Regno Unito, Australia, Cile e persino gli Stati Uniti, hanno qui in Cina una presenza che è di gran lunga più importante della nostra che conta non più di 1400 aziende realmente presenti ma con solo il 25% di queste con siti produttivi in loco pronti a servire il mercato. Per fare business in Cina occorre essere presenti edoperare in loco per molto tempo, noi abbiamo invece l’idea che per operare in Cina si passi attraverso agenti o distributori, si deleghi a loro il rischio e gli investimenti, con un approccio di minimo impegno diretto. Questo purtroppo non scalfisce il sistema e non porta risultati importanti che durino nel tempo.
I nostri imprenditori considerano il mercato cinese “difficile”, spesso accusando i cinesi del loro stesso fallimento, che però in verità è principalmente causato dalla propria impreparazione e mancanza di pianificazioni pluriennale richiesta da un mercato così importante e complesso.
I numeri parlano da soli. Il nostro agroalimentare, per esempio, vende in Cina circa 440 milioni di euro, contro i circa 1,8 miliardi della Francia e persino la Germania riesce ad esportare in Cina più prodotti agroalimentari di noi, superando il miliardo di euro.
La distanza tra noi e i tedeschi è abissale. Nel 2018 la Germania ha registrato esportazioni totali verso la Cina per 93,7 miliardi di Euro (17.3% del totale), contro i nostri 13,2 miliardi (10.3%), un gap enorme. Nel mezzo, dati Eurostat, abbiamo la Francia con 20,8 miliardi (10.3%) e il Regno Unito 23,4 miliardi (10.7%), e poco dopo di noi troviamo i piccoli Paesi Bassi (poco più grandi della Lombardia) a quota 11,1 miliardi (7.1%).
Questi dati ci inchiodano. Mentre ci vantiamo di essere la seconda economia industriale europea, in Cina ci comportiamo timidamente e non riusciamo a scalfire il primato tedesco che macina ordini a passi da gigante nel Paese asiatico. Ma che cosa c’è che non funziona, cosa non permette alle aziende italiane di decollare veramente in Cina a parte qualche eccezione meritevole? Dopo oltre 20 anni che sostegno e seguo lo sviluppo di aziende europee in Cina, e avendo lavorato sia con aziende tedesche e con tantissime aziende italiane, per me è ora tutto molto chiaro.
Non è il sistema Italia che non funziona, il problema è che il “sistema” non è mai veramente esistito, se non a parole. Si agisce come per dire “armiamoci ma poi partite voi”. Il mercato cinese non è mai stato veramente preso seriamente da gran parte della nostra imprenditoria, da sempre considerato come un mercato di componenti e/o prodotti a basso costo da portare in Italia, ma una volta che questo è ora maturato ed è diventato esso stesso un mercato da affrontare importante (ormai conta già oltre 200 milioni di persone che rientrano nella fascia della classe media con forte potere di spesa), ci ritroviamo ad non essere pronti e senza una presenza credibile locale, che serve per seguire in maniera propria il nostro prodotto o servizio, e lo sviluppo del proprio brand localmente.
Per poter essere presi sul serio e per poter agire veramente da protagonisti in Cina, si deve avere costanza, pianificare sul medio-lungo termine, e investire per essere presenti non solo con il proprio impiantino o ufficio a Shanghai, ma guardando anche le altre provincie che da sole sono spesso grandi anche il doppio dell’Italia in termini di popolazione.
Lufthansa, per esempio, in Cina ha circa 8 mila dipendenti e ha più di 80 voli a settimana che vanno e vengono dalla Cina su almeno una decina di destinazioni, quindi non solo su Pechino o Shanghai. Alitalia non ha mai preso sul serio questo mercato e abbiamo visto come si è ridotta.
Bosh ha 62 impianti e centri ricerca ed oltre 60 mila dipendenti in Cina, ma anche le piccole e medie aziende tedesche e francesi cercano di organizzarsi si consorziano (come fanno per vendere il vino con successo coprendo oltre il 50% del mercato) e lavorano qui già dai primi anni ’80, senza contare che centinaia di aziende europee sono presenti in Cina già da prima della seconda guerra mondiale: Siemens registra la sua prima attività industriale in Cina nel 1872.
Che cosa voglio dire con questo? Se un primo ministro viene a Pechino a una conferenza importante come quella di oggi, senza portarsi un imprenditore al seguito, senza aver sviluppato progetti grazie alla presenza delle aziende sul territorio, non possiamo poi meravigliarci se non si aprono tavoli per firmare accordi o contratti. I cinesi, nonostante la simpatica che possono riservare al nostro Paese, sono sinceramente un po’ stufi della nostra indeterminazione e per le nostre politiche verso la Cina che variano a seconda del governo più o meno amico. In Germania, e in Europa, , la Cina resta e sarà sempre un partner commerciale importante, ma da noi vige l’idea che attaccare la Cina e i suoi prodotti porta consenso e fa felici i nostri imprenditori che sognano dazi, invece di provare ad affrontare le sfide del XXI secolo.
Mentre in Germania abbiamo un costante sostegno verso le politiche di espansione in Cina (da notare ho detto: verso la Cina). In Italia si passa dalle aperture di Prodi ai “bambini bolliti” di una infelice frase del 2006 (copyright Silvio Berlusconi) che ha fatto tanto inorridire i nostri interlocutori cinesi. Ora abbiamo gli atteggiamenti di scontro di Salvini ma anche l’improvvisazione dell’attuale governo che pur essendo sulla giusta strada di apertura strutturale verso la Cina, pensa di bruciare le tappe.
Purtroppo, senza un tessuto industriale Italiano adeguato presente anche in Cina, non certamente superficiale come quello attuale, e senza un’imprenditoria illuminata che sia pronta a considerare questo mercato importante quanto quello degli Usa, sarà ben difficile essere presi sul serio. Ricordo che i cinesi sono cortesi e ci sorridono sempre ma non ti diranno mai veramente cosa pensano di noi, Nel nostro caso posso dire, dopo quasi 30 anni che ci lavoro assieme sul posto, che risultiamo molto simpatici ma poco credibili.
* Jesa Capital