Come sembrano lontani ora i tempi in cui l’allora amministratore delegato, Paolo Scaroni, parlava di «entusiasmo affievolito» per l’avventura di Eni in Iraq. Era il 2012, e persino le oil company statunitensi meditavano di lasciare intere aree del Paese, frenate dalle difficoltà burocratiche e geopolitiche. Giacimenti ambiti e ricchissimi, come West Kurna, faticavano ad attrarre nuovi investitori.
Oggi, sette anni dopo, lo scenario è cambiato, al punto che nell’ultimo bilancio annuale il Cane a sei zampe ha annunciato il «raggiungimento del record produttivo in Iraq», iscrivendo un altro milione di barili di riserve certe e fissando il prossimo plateau a 700 mila barili al giorno, con l’attesa perforazione dei nuovi pozzi nel giacimento di Zubair, che ha garantito finora un miliardo di barili. Adesso l’attenzione si sposta anche sulle infrastrutture, di cui Baghdad ha sempre più bisogno.
Eni e BP sono state appena scelte dal governo iracheno per realizzare un nuovo oleodotto destinato all’esportazione nell’area del Golfo, un progetto da circa 400 milioni di dollari che ha fatto addirittura gridare alla guerra con Exxon, prima data per favorita e poi esclusa dalla commessa. Ma non è così. Il colosso statunitense, partner strategico di Eni in vari consorzi (da Kashagan al Mozambico) resta in corsa nel mega-programma di infrastrutture petrolifere stimato in 53 miliardi di dollari per i prossimi 30 anni.
Per calmare le acque e non turbare gli equilibri sul mercato iracheno è dovuto intervenire il viceministro del petrolio, Thamir Ghadhban, garantendo che ci sarà spazio anche per Exxon. Più semplicemente, la pipeline assegnata a Eni e BP è stata stralciata dal piano complessivo, anche per velocizzarne la costruzione. Altri dettagli si sono aggiunti alla notizia che sarà il tandem italo-britannico a realizzare l’oleodotto. A BP spetterebbe la supervisione finanziaria del progetto, mentre Eni gestirebbe ingegneria e costruzione. Sempre secondo indiscrezioni, BP potrebbe accettare pagamenti tramite forniture di petrolio, mentre il Cane a sei zampe riceverebbe la sua parte per cassa.
Descalzi aveva incontrato Thamir A. Al Ghadhban a Baghdad a febbraio e aprile di quest’anno, in entrambi i casi per fare il punto sugli sviluppi del giacimento di Zubair, operato da Eni Iraq BV con il 41,56%, in consorzio con la società irachena Basra Oil Company (29,69%), Kogas (23,75%), e State Partner (5%). La produzione di Zubair ha fatto un balzo in avanti oltre le previsioni: negli ultimi quattro anni è più che raddoppiata, e una nuova centrale elettrica da 380MW che genererà energia per il consumo interno è già pronta a entrare in esercizio, ma il vero salto resta ancora da fare, perché oggi Eni riceve da Zubair appena 34 mila barili al giorno su una produzione complessiva di 500 mila.
Il programma di investimenti prevede, infatti, altri 7 miliardi di dollari nel progetto di sviluppo del giacimento. Il programma prevede inoltre l’utilizzo del gas associato per la generazione elettrica. La capacità produttiva e le principali facility per raggiungere il target produttivo sono state già installate, mentre le riserve presenti nel giacimento saranno messe progressivamente in produzione attraverso la perforazione di pozzi produttivi addizionali nei prossimi anni. Nei piani di Descalzi, ci sono anche potenziali sinergie legate ai progetti energetici al lancio nel Paese.
In cantiere c’è, per esempio, lo sviluppo dei nuovi giacimenti di Nahr Bin Umar and Artawi, che oggi producono circa 125 mila barili al giorno, con Exxon e Petrochina. Per Eni, inoltre, la presenza in Iraq è strategica nella nuova espansione in Medio Oriente, con Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Libano e Oman.
Baghdad vuole portare la produzione complessiva dagli attuali 4,5 milioni di barili al giorno a oltre 6 milioni già nel 2020. La quota destinata all’esportazione sfiora l’80%. I giacimenti di punta restano Rumaila, West Qurna 1 e Gharraf, ma il programma del ministero del Petrolio prevede di metterne in attività altri in breve tempo, con l’obiettivo nemmeno troppo nascosto di arrivare a sfidare l’Arabia Saudita nell’arco dei prossimi cinque anni, raddoppiando a 9 milioni di barili. Questa dichiarazione d’intenti potrebbe portare anche a una revisione dei contratti.