È una storia strana quella della Cina. Un Paese in cui a tratti il tempo sembra essersi fermato al biennio 2020-21. Due esempi. Primo, il governo di Pechino è l'unico che mantiene un approccio verso il Covid-19 da prime fasi della pandemia. La politica zero-Covid prevede lockdown e restrizioni alla mobilità su larga scala anche in presenza di pochissimi casi del virus. Così pochi giorni fa quasi un milione di persone sono state isolate nella città di Wuhan, primo storico epicentro della pandemia, in seguito alla rilevazione di appena quattro casi asintomatici. Secondo, la banca centrale del Paese, per contrastare il rallentamento economico provocato dalle misure di contenimento al virus, si sta muovendo in decisa controtendenza rispetto a Fed, Bce e grandi istituti centrali occidentali, mantenendo una politica ultra-accomodante di riduzione dei tassi di interesse. Una postura resa possibile anche dallo scenario inflazionistico, ancora moderato e intorno al 2%.
A questi elementi si aggiungono poi altre dinamiche di forte incertezza. Da una parte la crisi immobiliare del colosso Evergrande, sempre più vicino al default, culminata il mese scorso nel boicottaggio dei mutui da parte degli acquirenti, con un danno che per le banche locali può arrivare a 350 miliardi di dollari. Dall'altra, le tensioni con gli Stati Uniti, esasperate nel corso dell'ultima settimana dal viaggio della speaker della Camera, la democratica Nancy Pelosi, a Taiwan, isola che Pechino non ha mai riconosciuto e verso la quale Pechino non ha mai fatto mistero di nutrire mire di riunificazione. Il rischio di un'escalation è alto, soprattutto per due ordini di fattori. Taiwan, come è noto, produce tra il 20% e il 25% dei chip mondiali, e un ventuale blocco (o invasione) da parte dalla Cina provocherebbe una strozzatura nelle forniture che comprometterebbe alcuni dei settori industriali principali di Europa e Usa, dall'automotive agli hardware tecnologici. E poi c'è un tema più strettamente finanziario, legato al rischio delisting delle Adr, le società tech cinesi quotate a Wall Street, tra le quali c'è anche Alibaba, un colosso da quasi 260 miliardi di capitalizzazione.
Per chiudere lo scenario, un dato ha creato non pochi grattacapi ai decisori economici di Pechino: il pil del secondo trimestre è cresciuto appena dello 0,4%, contro una precedente stima dell'1%. Goldman Sachs, per tutta risposta, ha declassato le stime di crescita per fine anno al 3,3%, dal precedente 4,4%. Si tratta di oltre due punti in meno rispetto all'ambizioso target di Xi (5,5%), che peraltro dovrebbe essere riconfermato quest'anno come segretario generale del partito comunista, la massima carica del Paese.
A questo punto la domanda appare scontata. Investire in Cina adesso è un'opportunità o un suicidio per i propri risparmi? L'osservatorio sulle performance dei fondi d'investimento fornito dalla società di analisi Fida ha mostrato che nel secondo trimestre le categorie di comparti azionari focalizzati sulle borse cinesi sono stati i campioni assoluti di rendimento, con gli azionari Cina all'8,6% e i Cina A Shares, ossia i titoli in renminbi di società con sede nel Paese, al 7,9%. Performance che si confrontano con la crescita del 6,2% dell'indice Csi 300, che riunisce i titoli a maggiore capitalizzazione delle borse di Shanghai e Shenzhen. «A maggio, con le riaperture post lockdown, sono migliorati alcuni dati economici, dalle esportazioni al sentiment dei consumatori alla produzione industriale», commenta Teresa Gioffreda, client relationship manager di Ubs asset management. «Inoltre l'inflazione è ancora bassa», aggiunge, «e la banca centrale può portare avanti politiche monetarie espansive, che si associano a quelle fiscali, anch'esse espansive, messe in atto dal governo». Un altro fattore, legato alle politiche commerciali, ha contribuito a migliorare il sentiment trimestrale: «In estate scadono alcune tariffe doganali, che se confermate farebbero aumentare ancora di più l'inflazione negli Stati Uniti (al 9,1% a giugno, ndr)», precisa Gioffreda. «Possiamo quindi ipotizzare che le tariffe saranno meno severe, andando a favorire gli esportatori cinesi».
A luglio tuttavia le cose sono cambiate ancora. Il dato sul pil allo 0,4%, il boicottaggio dei mutui, le tensioni su Taiwan e la spada di Damocle dei delisting delle Adr hanno provocato un nuovo clima di incertezza sui mercati, e il Csi 300 è sceso in un solo mese di oltre il 7%. Risultato: da inizio anno, come si può osservare nelle elaborazioni Fida proposte nella tabella in pagina, i migliori cinque fondi azionari focalizzati sulla Cina per performance perdono in media il 6,2%, anche se su un orizzonte triennale il loro rendimento supera il +21,5%. Ancora peggio è andata agli Etf, che da gennaio hanno perso quasi il 9%, a riprova del fatto che in fasi di correzione di mercato la gestione attiva riesce spesso a sovraperformare la replica degli indici.
Ben diversa la situazione sul versante obbligazionario: i primi cinque comparti censiti da Fida rendono il 7% medio da gennaio, che sale oltre il 20% sui tre anni. Ubs Fund Management, con il suo Bond Sicav China Fixed Income, mette a segno una performance in linea con la media del periodo (+6,9%). «Con tassi che continuano a scendere», sottolinea Gioffreda, «ci aspettiamo che i prezzi delle obbligazioni continueranno a salire. Sui crediti continuiamo a rimanere neutrali per via delle incertezze immobiliari, mentre siamo positivi sui titoli di Stato». La parte obbligazionaria è andata bene sia quest'anno sia lo scorso (performance media a un anno del 14,6%) anche per un altro motivo: «L'effetto positivo del tasso di cambio renminbi-euro», aggiunge la manager.
Proprio la valuta cinese potrebbe rappresentare un altro tema di investimento interessante. Da inizio anno il renminbi si è apprezzato del 5,1% rispetto all'euro, e allargando l'orizzonte al 2020, che include anche tutto il periodo pandemico, il rafforzamento è ancora più marcato: +13%. «In un'ottica di lungo termine», ricorda l'esperta di Ubs Am, «vediamo che la divisa locale ha sempre più il valore di riserva». In un recente sondaggio condotto dal colosso svizzero è emerso inoltre che l'85% dei gestori delle riserve delle banche centrali ha dichiarato di «voler investire o aver già investito la valuta cinese nel proprio portafoglio», mette in luce Gioffreda.
La grande incognita in questo scenario riguarda quindi le sorti dei mercati azionari. Dopo la corsa del 2020, quando la Cina fu il primo Paese a uscire dalla pandemia e il Csi 300 salì del 27%, il ribasso iniziato lo scorso anno in scia alla stretta regolamentare del governo su alcuni settori (tra cui il tech), alla crisi immobiliare e alle recrudescenze del Covid non sembra ancora sul punto di interrompersi. Dall'inizio del 2021 l'indice ha perso il 22%, ma alle attuali valutazioni ci potrebbero essere punti di ingresso interessanti. La manager di Ubs Am suggerisce di «tenere in considerazione i cambiamenti normativi: ci piace il settore finanziario, perché una crescita di maggiore qualità implica una classe media più ampia, che cerca soluzioni di risparmio gestito, assicurazioni, private banking». I gestori della società elvetica, prosegue Gioffreda, preferiscono poi «esporsi ai consumi non ciclici, poiché stiamo ancora aspettando che le valutazioni diventino più interessanti prima di tornare nel ciclico». Attenzione infine «ai communication service, ossia quelle società penalizzate di più lo scorso anno e che ora possono rimbalzare». In generale, conclude la manager, «suggeriamo di diversificare tra azioni e bond, due mercati con basse correlazioni rispetto alle altre asset class a livello locale». (riproduzione riservata)