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Vaccini made in China, un mercato che vale 14 miliardi di dollari

Le big pharma di Pechino hanno ricevuto ordini di siero per 500 mln di dosi. A richiederle sono soprattutto i Paesi emergenti, ma ora anche il Vecchio continente. I maggiori beneficiari dei farmaci cinesi sono, per ora, gli Emirati Arabi (che utilizzano due dei quattro antidoti arrivati alla fase di approvazione), il Cile e la Turchia


22/02/2021 13:42

di Marco Capponi - Class Editori

settimanale

Nell’aprile del 2020, durante la fase più dura della pandemia di Covid-19, alcuni senatori del Paraguay hanno avanzato una mozione per sospendere il riconoscimento di Taiwan e ristabilire così le relazioni con la Cina, interrotte nel lontano 1957. Il Paese latino americano è infatti uno dei pochissimi che all’epoca scelsero di schierarsi coi nazionalisti di Formosa contro i comunisti di Pechino.

Con lungimiranza i senatori (poi messi in minoranza) avevano capito che nel giro di pochi mesi il Dragone sarebbe diventato un alleato per la lotta dell’umanità contro il virus, tramite l’arma del vaccino. Dopo quasi un anno la profezia sembra essersi avverata: con quattro antidoti approvati da 24 Paesi e circa 70 sperimentazioni di farmaci arrivati almeno alla seconda fase di trial  le aziende biofarmaceutiche dell’ex Celeste Impero giocano un ruolo da protagoniste nella campagna di inoculazioni globale.

Un disegno che sembra guidato dalla visione di lungo periodo del presidente Xi Jinping, che lo scorso maggio ha affermato: «Tratteremo l’antidoto come un bene pubblico globale». Il piano parrebbe finalizzato ad accrescere la sfera di influenza della Rpc nel mondo, ponendo le basi per un mercato che, secondo un recente studio di Credit Suisse, nel 2021 varrà tra i 9 e i 14 miliardi di dollari.

Stando agli analisti, le dosi di sieri cinesi ordinate all’estero sono circa 500 milioni. I numeri, visti così, non sembrerebbero fare concorrenza alle grandi corporate occidentali. Entro fine anno l’intera industria dovrebbe essere in grado di produrne per oltre 2 miliardi di persone (considerando le doppie dosi, il totale di antidoti può anche raddoppiare), con una prevalenza di nomi ormai noti: AstraZeneca, Moderna, Pfizer-Biontech, Johnson & Johnson. Valore: circa 78 miliardi di dollari, di cui il mercato cinese rappresenterebbe tra il 12% e il 18%.

Eppure, la diplomazia vaccinale di Pechino percorre una traiettoria diversa: secondo il South China Morning Post le dosi di sieri inviate all’estero dal Paese sono attualmente 46 milioni, più di quelle inoculate in patria, poco meno di 41. Per una nazione di 1,4 miliardi di abitanti significa che meno del 3% della popolazione è stata vaccinata, contro il 17% degli Usa. Ancor più interessante è vedere come si collocano i maggiori beneficiari dei farmaci cinesi: gli Emirati Arabi (che utilizzano due dei quattro antidoti arrivati alla fase di approvazione) sono al 53%, il Cile è sopra al 12%, ma in seconda posizione per tasso di incremento giornaliero (+1,06%), dopo aver ordinato 60 milioni di dosi di CoronaVac (prodotto dalla Sinovac), la Turchia è oltre il 6% in seguito all’ordine di 50 milioni di antidoti, anch’essi della Sinovac.

Il richiamo di Pechino è stato accolto soprattutto in Medio Oriente, Sudest asiatico e America Latina: i Paesi emergenti, svantaggiati dalla distribuzione ineguale delle dosi di cui MF-Milano Finanza ha parlato di recente. Eppure, viste le difficoltà nella campagna continentale, i farmaci cinesi stanno facendo breccia anche in Europa: la Serbia ha ordinato 1,5 milioni di dosi, con le quali ha già vaccinato il 14% della popolazione, e perfino all’interno dell’Ue c’è chi ha deciso di stringere partnership con le aziende d’oriente. Come l’Ungheria, primo Paese del blocco ad approvare l’antidoto Sinopharm, con un ordine di 5 milioni di farmaci.

L’efficacia non può però essere trascurata, e i dati in tal senso sono spesso parziali: il CoronaVac, ad esempio, secondo l’azienda produttrice sarebbe efficace al 91%, ma il Brasile ha confutato questo dato, ipotizzando un più tiepido 50%.

La visione della Cina insegna ancora una volta l’interconnessione tra politica e grandi corporate, che stanno salendo sul treno di un’industria sanitaria promettente. Guardando all’Etf Global X Msci China Health Care, che a un anno ha messo a segno una performance di oltre il 60%, si può notare la compresenza di aziende come Wuxi Biologics (specialista in servizi di esternalizzazione ai progetti di ricerca delle società biotech), big pharma impegnate nel vaccino come Cansino e Sinopharm, e Alibaba Health, branca sanitaria del colosso fondato da Jack Ma, alleata di Sinovac nel costruire una piattaforma digital di prenotazione delle inoculazioni. Un caso interessante è poi Wantai, che in borsa a Shanghai è cresciuta di oltre il 2.300% in un anno dopo aver annunciato la sperimentazione di un antidoto spray, meno invasivo di una classica iniezione.

Sull’healthcare, quindi, il Paese punta molto, anche a prescindere dai vaccini. A spiegarlo è Lorenzo Biasio, equity analyst healthcare di Credit Suisse: «Si tratta di un mercato grande per le dimensioni del Paese, ma anche per il fatto che la Cina vedrà crescere il numero di anziani a causa dello sviluppo demografico. Quindi è un imperativo strategico essere presenti in quell’area, e quasi tutte le pharma che copriamo hanno una strategia formulata: ad esempio Novartis, che mira a raddoppiare le vendite nel Paese». (riproduzione riservata)


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