Dopo quello digitale avremo anche il divario elettrico. La transizione della mobilità sta aprendo una frattura nell'industria dell'auto, fra le più globalizzate e spesso all'avanguardia di profondi sconvolgimenti nel sistema produttivo.
La prima linea di faglia, la più evidente, riguarda la penetrazione delle vetture a batteria. Sotto questo profilo la Cina stacca tutti gli altri Paesi di netto. Nel primo semestre le vendite di auto elettriche sono più che raddoppiate, superando quota 2,5 milioni. A luglio la loro quota di mercato si è attestata al 27%, spingendo l'associazione dei costruttori locale a rivedere al rialzo le previsioni per l'intero esercizio. Ora la China Passenger Car Association calcola che il 2022 si concluderà con 6 milioni di auto elettriche immatricolate, circa un quarto del totale e il doppio rispetto al dato del 2021. Dinanzi a questi numeri la superpotenza rivale, gli Stati Uniti, appare un nano. Complice la predilezione dei consumatori americani per i veicoli ad alta cilindrata e di grande stazza, le immatricolazioni elettriche rappresentano solo il 5,4% del totale registrato fra gennaio e giugno di quest'anno, poco meno di 370 mila unità. Come spesso accade, l'Europa si muove invece in ordine sparso, passando da un estremo all'altro. Nel Vecchio Continente si trovano Paesi come la Norvegia, dove l'elettrico sfiora l'80% delle vendite, e mercati come Spagna, Polonia e Italia, dove invece la penetrazione è inferiore al 4% e nel caso dell'Italia addirittura in calo rispetto al 2021 (-18%).
La seconda linea di faglia riguarda la diffusione delle stazioni di ricarica. Non è chiaro se il dato sia causa, effetto o indipendente rispetto alla quantità d'auto elettriche in circolazione. Sta di fatto che anche in questo ambito la Cina è in grande vantaggio con oltre 1,5 milioni di colonnine e ne ha aggiunte a luglio più di quante ne abbia in totale la Francia. Di nuovo, l'Europa presenta un panorama frastagliato. Secondo le più recenti rilevazioni dell'Associazione dei costruttori europei, quasi il 50% delle colonnine è concentrato in soli due Paesi: Germania e Olanda. A seguire si trovano Francia, Svezia e Italia, tutti con più di 20 mila punti di rifornimento, mentre in fondo alla classifica figurano Cipro e Malta con meno di 100 stazioni per le batterie. Nonostante negli ultimi cinque anni il numero di colonnine in Europa sia aumentato del 180%, toccando le 307 mila unità, secondo l'Acea ne serviranno 6,8 milioni entro il 2030 - ossia 22 volte di più - per raggiungere l'obiettivo di ridurre del 55% le emissioni di co2 delle auto fissato dalla Commissione Ue. Lo sviluppo della rete dovrà essere ancora più repentino negli Stati Uniti dove oggi si trovano soltanto 48 mila punti di ricarica contro le 150 mila stazioni di rifornimento per diesel e benzina. Per arrivare in breve tempo a quota 500 mila colonnine, l'amministrazione Biden ha appena stanziato contributi pubblici per 5 miliardi di dollari.
Si arriva così alla terza e ultima linea di faglia in allargamento fra le macro-regioni economiche, la più insidiosa per l'industria dell'auto e per i costruttori. La volontà di primeggiare nella transizione elettrica rischia infatti di scatenare una guerra di incentivi e quindi commerciale fra le grandi potenze. A muovere per primo è stato il governo di Pechino che da tempo privilegia nell'assegnazione dei sussidi all'acquisto le vetture di fabbricazione domestica. Questa misura ha indotto diverse case occidentali a localizzare la produzione in Cina, primo mercato auto al mondo e sede della filiera elettrica più sviluppata al mondo, per tecnologia e dimensioni. Ciò ha consentito a gruppi come Volkswagen, Bmw e Mercedes di prosperare per anni nel Paese asiatico, diventato primo serbatoio dei loro ricavi e profitti. Ultimamente, però, la concorrenza agguerrita delle case locali e l'aumento del protezionismo di Pechino ha reso l'esercizio più complesso. Nel primo semestre, così, le vendite dei costruttori tedeschi in Cina sono scese del 20%, quelle degli statunitensi del 19%, quelle dei giapponesi del 14%, mentre le immatricolazioni delle case cinesi sono aumentate dell'11%.
Il predominio di Pechino sull'auto elettrica ha suscitato la tardiva ma inevitabile reazione degli Stati Uniti. Pur avendo l'obiettivo dichiarato di affrancare l'industria dell'auto americana dalla dipendenza cinese, però, il mega-piano di incentivi di Biden ha aperto una frattura con l'alleato occidentale (e con la Corea del Sud). Il provvedimento prevede fino a 7.500 dollari di incentivi per l'acquisto di vetture elettriche ma lega l'ammontare dei sussidi ottenibili dai consumatori alla quota di produzione sul suolo americano. Più è alta la percentuale di materie prime, componenti e batterie fabbricati o assemblati negli Usa, maggiore è l'entità del sostegno pubblico per i clienti.
Il piano equipara alla produzione domestica quella realizzata in Paesi che beneficiano di trattati di libero scambio con gli Usa, ossia Messico e Canada. Ma esclude tutti gli altri. «Riteniamo il provvedimento discriminatorio verso i produttori stranieri e a vantaggio di quelli statunitensi», ha detto il portavoce della Commissione Ue Miriam Garcia Ferrer. «Ciò comporterebbe l'incompatibilità della norma con il Wto e quindi invitiamo con urgenza gli Stati Uniti a modificarla». In caso contrario il rischio è che anche i Paesi Ue finiscano per approvare sussidi protezionistici per tutelare la produzione domestica e continentale. Per il momento nessun governo europeo ha adottato simili restrizioni all'accesso agli incentivi ma non è un mistero che alcuni partiti sovranisti in Italia e Ue in passato abbiano accarezzato l'idea di indirizzare i consumatori verso auto legate alla filiera nazionale.
Un'eventuale guerra Usa-Ue sugli incentivi si trasformerebbe così in un inferno produttivo per gruppi globali come Stellantis, Volkswagen e Ford. Non a caso gli stessi costruttori hanno criticato il piano Biden chiedendo di includere tra i fornitori ammessi anche i Paesi che partecipano ad alleanze militari con gli Usa, vale a dire i membri della Nato. In caso contrario, sottolineano, l'Amministrazione Usa rischia di rendere irraggiungibile un altro obiettivo dell'agenda Biden, quello di portare al 50% le vendite di auto elettriche entro il 2030. Per l'Alliance for Automotive Innovation il 70% dei 72 veicoli a batteria oggi disponibili negli Usa non avrebbe diritto agli incentivi e nessuno potrà ambire ai 7.500 dollari di sussidi al massimo disponibili. (riproduzione riservata)