Il lancio nelle ultime settimane di due voli diretti dal sud e dal centro della Cina a Mandalay, la seconda città del Myanmar, è l’ultimo recente segnale dell’attenzione, sul piano degli affari e della politica del Dragone, verso il suo vicino meridionale affacciato sul golfo del Bengala.
La notizia dei nuovi collegamenti in partenza da Mangshi, nella provincia dello Yunnan, sud est della Cina, e da Chongqing, nel centro, inaugurati rispettivamente il 31 e l’11 gennaio scorsi, è stata accompagnata dalla decisione politica di inserire il Myanmar in una seconda tornata di finanziamenti del Lancang-Mekong Cooperation (LMC) Special Fund, forte di una dotazione di 7,3 miliardi di dollari.
L’accordo firmato il 23 gennaio scorso a Nay Pyi Taw, la capitale politica del Paese, prevede il finanziamento di 19 nuovi progetti, che vanno ad aggiungersi ai 10 già implementati e finanziati con il primo piano di aiuti dello stesso fondo, per 2,4 miliardi di dollari, lanciato nel gennaio 2018.
Il governo militare del Myanmar è uno dei più beneficiati nell’area dalla strategia Belt & Road e non solo dalla Cina. Anche il Giappone ha stabilito di versare 8 miliardi di dollari ai militari a fronti di accordi commerciali e industriali nella realizzazione di opere pubbliche.
La Banca centrale del Myanmar ha, tra l’altro, annunciato nei giorni scorsi che lo yuan e lo yen saranno accettati ufficialmente come mezzi di pagamento nelle transazioni domestiche nelle banche autorizzate.
Per la Cina, l’apertura di un corridoio economico tra i due paesi, annunciata formalmente nel novembre del 2017, da Wang Yi, ministro degli esteri del Dragone, è una priorità politica e strategica nell’ambito della Belt & Road Initiative.
Infatti per il Dragone, quel corridoio non solo significa dare una sbocco al mare, il golfo del Bengala, alla ricca provincia dello Yunnan, collegando strade, ferrovie ad alta percorrenza e pipeline a Mandalay e ai due grandi porti di Kyaukphyu e Yangoon, la capitale economica del Myanmar, nel sud del Paese.
In particolare il progetto del porto di Kyaukphyu è uno dei punti cardine sulla nuova via marittima della Seta, il sistema di grandi porti oceanici tra la Cina e il Mediterraneo, passando per Sri Lanka (Colombo), Pakistan (Gwadar), Dubai e Gibuti in Africa.
Lo sviluppo di Kyaukphyu comprende il potenziamento del terminale petrolifero, attivo dal 2013, che alimenta la gigantesca pipeline che porta il petrolio mediorientale nello Yunnan, by-passando lo stretto di Malacca.
Questo oleodotto collega la nuova raffineria di PetroChina nel Kunmig aperta nel 2017 e che dovrebbe assicurare il 6% delle importazioni cinesi di greggio.
La realizzazione del nuovo porto di Kyaukphyu in acque profonde per l’attracco delle grandi petroliere oceaniche, è in fase di realizzazione, insieme a una zona industriale attrezzata per le imprese di trasformazione di 1.700 ettari, da parte dal consorzio Citic di imprese cinesi.
Il disegno realizza così l’obiettivo cinese di svincolare una parte delle le rotte dei traffici merci in partenza e in arrivo dai porti della Cina meridionale, Shanghai e Hong Kong, in particolare, dall’attraversamento dello stretto di Malacca.
L’apertura del corridoio nel Myanmar, in sostanza, darà un accesso più rapido all’Oceano Indiano alle merci cinesi, evitando il periplo della penisola indocinese e con esso anche il dazio alla città stato di Singapore, faro dell’Indocina, ridimensionandone il peso.
All’obiettivo politico si unisce l’opportunità di stringere i rapporti con un’economia che sta crescendo rapidamente dopo lungo periodo di stagnazione, alimentata da una popolazione giovane di 55 milioni di abitanti, ancora concentrata per il 40% sull’agricoltura.
Vista da un’altra prospettiva il Myanmar è uno dei pochi paesi dell’area, forse il solo rimasto, nella prima fase di sviluppo, con tutte le potenzialità che questo comporta.
«È un paese ricco di acqua e gas, due fonti energetiche che fanno gola a tutti, dove ci sono da costruire le infrastrutture di base e le manifatture, partendo dall’automotive,» ha raccontato Paolo Arnello, torinese, ex imprenditore nel settore componentistica elettronica che da quattro anni si è stabilito a Yangoon, dove ha costituito la Camera di Commercio italiana in Myanmar, una dei pochissimi avamposti occidentali.
Al momento la presenza italiana è limitata a poche grandi imprese, che hanno le spalle finanziarie solide per portare avanti il loro business. La principale è Eni, che sta lavorando su quattro blocchi di ricerca, due off shore e due onshore, mentre Danieli, che sta mettendo in piedi per il governo il progetto di una siderurgia nazionale, un investimento da 800 milioni di euro.
Danieli ha riunito a Yangoon lo scorso dicembre, auspice l’ambasciata italiana guidata da pochi mesi da Alessandra Schiavo, già console a Hong Kong, e ferrata nei rapporti con la Cina, una delegazione alcune decine di produttori e trader nell’acciaio internazionali per spiegare le opportunità che offre oggi quel Paese a chi voglia insediarsi e, quindi, le tecnologie all’avanguardia, anche nella sostenibilità, che Danieli è pronta a mettere in campo per lanciare la struttura industriale base di un’economia.
«Per il retail è ancora un mercato piccolo, ma il potenziale è molto importante,» ha insistito Arnello che sta cercando di convincere grandi gruppi del settore costruzione, Cmc e Gavio, e la stessa Fca, delle opportunità che si aprono anche grazie ai finanziamenti dei cinesi e all’attenzione del Dragone per lo sviluppo dell’economia.
Nonostantre le dimensioni, qualche marchio retail ha deciso di puntarci. Piquadro ha aperto due negozi a Yangoon e Mandalay, The Bridge, un marchio toscano di pelletteria ha deciso di aprire un canale commerciale e nei negozi di Yangoon si vendono borse di Furla e Coccinelle. Ancora poco per bilanciare 200 milioni circa di importazioni (nei primi 10 mesi dell'anno scorso), di cui la metà fatta di abbigliamento, triplicata negli ultimi 4 anni, con 82 milioni di export .