Da una parte c’è il G7, dall’altra ci sono i Brics: disegnano un mondo ormai diviso tra due istanze internazionali che non hanno alcun denominatore comune, ma solo un nemico: da una parte c’è da combattere contro la tracotanza della Russia, che ha invaso l’Ucraina dopo aver annesso la Crimea violando ripetutamente ogni principio del diritto internazionale; dall’altra parte si cerca di contrastare lo strapotere del dollaro.
Così come per ridurre la proiezione internazionale della Russia si sta mettendo ogni possibile ostacolo alle sue esportazioni energetiche al fine di minarne l’economia, così si cerca di ridurre il potenziale finanziario globale degli Stati Uniti e la loro capacità di influenzare per questa via le relazioni internazionali.
La fine della globalizzazione
Se la globalizzazione dei mercati è finita irrimediabilmente, i termini come decoupling o derisking nei confronti della Cina da parte americana, o la sovranità strategica per l’Unione europea, non definiscono altro che la conclusione di un ciclo che in fondo è stato brevissimo, visto che è iniziato formalmente nel 2001, con l’ingresso della Cina nel Wto, per concludersi già nel 2008 con la Grande crisi americana e poi in Europa con il collasso dei Piigs.
L’Occidente non ha vinto la partita della globalizzazione, la sfida in cui gli Usa si collocavano al centro di due aree subordinate, sull’Atlantico e sul Pacifico, che ne avrebbero magnificato il ruolo imperiale.
Il recente Vertice della Nato a Vilnius è stato fondamentale dal punto di vista della narrazione: la delusione derivante dagli scarsi risultati militari della controffensiva condotta da Kiev, nonostante l’arrivo delle forniture di artiglieria e di carri armati su cui si erano incentrate polemiche a non finire nel corso dell’inverno, andava colmata con un vistoso successo politico, con tutti i leader politici convenuti per ribadire il sostegno all’Ucraina per tutto il tempo che sarà necessario.
Ed era naturalmente scontata la decisione secondo cui l’ingresso nella Nato avverrà solo a conflitto concluso: la solidarietà attiva, prevista dall’articolo 5 dello Statuto, comporterebbe l’immediato ingresso in guerra contro la Russia a fianco di Kiev. È un’ipotesi che nessuno prende minimamente in considerazione, anche se il contesto è di un forte irrigidimento dei rapporti con la Russia che supera anche il rispetto delle rispettive aree di influenza che vigeva fino alla caduta del Muro di Berlino.
La Nato recupera l’Europa
Con la guerra in Ucraina, la Nato ha recuperato l’Europa intera, non solo l’Unione Europea, al suo ruolo di alleato fondamentale degli Stati Uniti: questo consolidamento delle relazioni sul versante Atlantico consente una maggiore libertà di interlocuzione nei confronti della Cina, con le due visite ufficiali a Pechino, prima da parte del Segretario di Stato Anthony Blinken e poi di quello al Tesoro Janet Yellen. È un pressing diplomatico con cui Washington cerca di tenere Pechino all’àncora, in un contesto che non appare però scontato neppure in ambito occidentale.
Da parte francese, infatti, dopo la visita del presidente Emmanuel Macron a Xi Jinping, al cui esito è stato diramato un comunicato ufficiale lunghissimo e assai articolato, ha suscitato particolare sorpresa la richiesta dello stesso Macron di partecipare al prossimo Vertice del Gruppo dei Brics, che si terrà in Sudafrica subito dopo Ferragosto: è un’iniziativa che segna la necessità di non calcificare una sorta di contrapposizione tra Blocchi, che ha avuto come risposta la mossa turca di restituire alla Ucraina alcuni militari della brigata Azov che si erano arresi dietro la promessa che sarebbero stati tenuti in custodia da Ankara fino al termine del conflitto.
La stessa decisione turca di acconsentire finalmente all’adesione della Svezia alla Nato, in cambio della riapertura del processo di adesione all’Unione europea rimette in moto un processo che sembrava definitivamente accantonato: sono tali e tanti gli interessi nei Balcani che non possono essere lasciati alle sole cure di Bruxelles, che altrimenti agirebbe esclusivamente per conto di Parigi e di Berlino.
La corsa ai Brics
Per quanto riguarda i Brics, il punto cruciale è il formato ristretto, come avviene per il G7. Il lungo elenco dei Paesi che hanno già chiesto ufficialmente di aderire e di quelli che hanno manifestato interesse a farlo non porterebbe solo a uno snaturamento pericoloso: si è già visto che cosa è accaduto col G30, che è risultato troppo ampio per assicurare il tradizionale predominio anglosassone.
L’ingresso dell’Argentina creerebbe una scomoda diarchia in ambito sudamericano, così come l’ingresso dell’Algeria toglierebbe spazio al Sudafrica che già fatica a definire un suo ruolo per il Continente Nero. Per non parlare delle implicazioni per gli equilibri del Medioriente che deriverebbero da un ingresso dell’Iran o dell’Arabia Saudita.
Saranno determinanti, invece, le decisioni sulle strutture e sulle iniziative già esistenti e operanti a monte ed a valle dei Brics: dalla Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco) alla Unione economica Euroasiatica (Uee), dalla Via della Seta alla Nuova Banca di Sviluppo, fino alle relazioni con le due grandi associazioni regionali degli Stati dell’America latina e dell’Africa.
La questione dirimente sarà rappresentata dalla de-dollarizzazione degli scambi, bilaterali e multilaterali: è un problema di straordinaria complessità teorica, politica e organizzativa, la cui soluzione farebbe passare di mano il testimone della storia della moneta. Ma è su questo nuovo modello di cooperazione internazionale e di risoluzione degli squilibri commerciali e finanziari che si gioca il futuro della aggregazione del Sud del Mondo attorno ai Brics. (riproduzione riservata)