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Politica

Se a decidere è il mercato, Pechino non verrà isolata

La dinamica sostenuta del prodotto cinese, unita alla dimensione ciclopica del suo mercato interno, fanno scemare l'interesse mondiale per la crescita degli Usa, che per di più vorrebbero reindustrializzarsi per ridurre le importazioni: se a decidere è il Mercato, sarà ben difficile che su Pechino cali una nuova Cortina di ferro


12/07/2021 16:20

di Guido Salerno Aletta*

Cina
Guido Salerno Aletta

Tra Cina e Usa sembra riproporsi il medesimo confronto, geopolitico e militare e non solo economico e finanziario, che caratterizzò l'espansione strategica della Germania dopo la morte di Bismarck e le reazioni che essa determinò da parte dell'Impero Britannico, già in fase di decadenza. Non c'è alcun dubbio, infatti, che Berlino era divenuta la protagonista indiscussa della seconda rivoluzione industriale, a partire dal 1870, quando inchiodò la Francia, così come Londra lo era stata della prima. Sotto il profilo commerciale, a Londra non bastava più avere l'India: sui mercati europei e sudamericani, quelli che contavano, la concorrenza tedesca era divenuta pressoché imbattibile. Le rimanevano, inossidabili, da una parte la sterlina e la City, e dall'altra la Royal Navy.

Nessuno sembrava in grado di sfidare la Gran Bretagna, né sul piano finanziario né su quello militare, anche perché la dimensione della sua Flotta doveva essere tale da superare la somma delle due più grandi tra le altre marine straniere: questo solo dato sintetizzava il concetto più complesso di dominio sui mari. Il controllo degli Stretti e delle rotte che la collegavano all'India era parte integrante della strategia militare: per un verso c'era la sequenza composta da Gibilterra, Malta e Suez, insieme ad Aden che era Protettorato; per l'altro, il controllo ferreo sulle dinastie del Golfo Persico e di conseguenza sulle risorse petrolifere detenute sia in Persia che in Iraq.

La Germania elaborò una duplice strategia espansiva: sul piano terrestre stringendo i rapporti con l'Impero Ottomano in vista della costruzione di una linea ferrata che avrebbe collegato Berlino a Bagdad; su quello marittimo varando una serie di ben cinque Leggi Navali, a partire dal 1898, data della morte di Bismarck. La risposta della Gran Bretagna fu fulminea: mentre Winston Churchill, Primo Lord dell'Ammiragliato, mise in costruzione una nuova generazione di corazzate, si ribaltarono le alleanze: sparirono d'incanto sia le ruggini con la Francia, contro cui Londra aveva armato e finanziato le Coalizioni contro Napoleone, sia quelle con la Russia, che a ogni costo doveva essere tenuta fuori dal Mediterraneo.

La strategia di espansione della Cina elaborata dal presidente Xi Jinping, denominata Bri (Belt and Road Initiative), sembra ricalcare quella del Kaiser Guglielmo II: sul piano terrestre, ci sono le strette relazioni con la Russia, erede modesto ma sempre orgoglioso e irriducibile di quello che fu l'Impero Sovietico, che facilitano la proiezione continentale verso l'Occidente nel lungo corridoio interstiziale a meridione delle frontiere russe; sul piano marittimo, ci sono il presidio militare del Mar Cinese Meridionale, il tentativo di crearsi uno sbocco diretto sull'Oceano Indiano attraverso il Myanmar (più noto ai lettori di Salgari come Malesia) per evitare di rimanere comunque chiusa dallo stretto di Malacca, l'apertura di basi navali militari all'estero. Ce n'è già una ad Aden, e altre quattro sono programmate in Africa.

C'è un di più, stavolta sotto il profilo delle relazioni economiche internazionali. Mentre gli Usa, a causa di un esorbitante e strutturale deficit commerciale, non riescono più ad assolvere alla missione imperiale che consiste nell'assorbire con il consumo interno il surplus produttivo degli Stati-clienti, la Cina ha legato a sé una serie vieppiù numerosa di Paesi: dagli esportatori di materie prime come l'Australia, a quelli di prodotti energetici come la Russia e l'Iran, o di derrate agricole e di prodotti dell'allevamento come Brasile e Argentina, fino a quelli specializzati nella impiantistica e nei beni strumentali come la Germania. Dopo la Gcf del 2008, non potendo più contare sulla domanda internazionale crescente, la Cina ha virato verso la crescita interna: ora sono i consumi della nuova classe media a trainare le importazioni dall'estero.

I dazi e le sanzioni imposte dall'amministrazione Trump al fine di riequilibrare la bilancia commerciale hanno indotto la Cina ad accelerare il processo di autonomizzazione tecnologica, già in atto con orizzonte al 2030: si erode anche l'ultima forma di segregazione della ricchezza che punta sui brevetti, seguendo il paradigma: «Inventato negli Usa, prodotto su licenza in tutto il mondo». Da decenni la lotta contro le frodi sul copyright è combattuta dagli Usa con assai maggiore determinazione e successo rispetto a quella condotta contro il traffico di stupefacenti.

La rivoluzione dell'IoT (Internet of Things) attraverso la piattaforma 5G rimane sullo sfondo: il bando che è stato imposto, per ragioni di sicurezza nazionale, nei confronti dei produttori cinesi, Huawei e Zte, in quanto sarebbero controllati dal loro governo e dunque potendo venire compromessa l'integrità delle infrastrutture di rete, ha messo in luce non tanto la ben nota esiguità cui si è ridotta la filiera manifatturiera occidentale, quanto le asimmetrie che si sono determinate nel tempo: la Cina ha infatti eretto tempestivamente un argine alla globalizzazione pervasiva, impedendo l'uso delle piattaforme informatiche americane che beneficiano di un regime di sostanziale monopolio, per crearne di proprie in alternativa. Era tutto ben noto, ma solo ora si percepisce la pericolosità di questi squilibri. È la proiezione geopolitica e militare della Cina che viene percepita dagli Usa come un vulnus al loro eccezionalismo, allo status di unica superpotenza mondiale: preoccupa anche la sua crescente presenza in Africa, come già accadde con la Germania che si aggiunse con prepotenza alle precedenti presenze plurisecolari.

La dinamica sostenuta del prodotto cinese, unita alla dimensione ciclopica del suo mercato interno, fanno scemare l'interesse mondiale per la crescita degli Usa, che per di più vorrebbero reindustrializzarsi per ridurre le importazioni: se a decidere è il Mercato, sarà ben difficile che su Pechino cali una nuova Cortina di ferro. Aver trasformato l'Urss nel nemico dell'Occidente, subito dopo la guerra combattuta insieme, è stato il collante che lo ha tenuto insieme fino alla caduta del Muro di Berlino: ma una volta abbandonate le ideologie, e con la globalizzazione, il paradigma politico stesso di «amico-nemico» è stato definitivamente sepolto. Al massimo, accettiamo la concorrenza commerciale: ma senza afferrarne a pieno le conseguenze: come in guerra, non fa prigionieri. Solo falliti e disoccupati: così, forse, è più chiaro. (riproduzione riservata)

*Editorialista MF-Milano Finanza


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