Shein, il rivenditore di ultra-fast fashion fondato in Cina e diventato uno dei preferiti dai giovani consumatori statunitensi, sta facendo uno sforzo per rimodellare la sua immagine pubblica, anche per rispondere alle preoccupazioni dei legislatori statunitensi sulle origini del suo cotone. Shein è ora il primo rivenditore di fast fashion negli Stati Uniti per quota di mercato. Mentre la popolarità dei suoi capi d’abbigliamento a prezzi bassissimi, si pensi alle canottiere da 5 dollari e ai sandali da 6 dollari, è aumentata, i critici l’hanno presa di mira per presunte violazioni del copyright, sprechi tessili, e pratiche di lavoro discutibili.
Al centro dei problemi di Shein c’è una questione politica di scottante attualità. I legislatori occidentali hanno fatto pressione su Shein per sapere se si rifornisce di cotone dalla regione cinese dello Xinjiang, dove gli Stati Uniti hanno accusato le autorità cinesi di utilizzare il lavoro forzato nella repressione degli uiguri, per lo più musulmani. Pechino ha negato ogni accusa.
Con operazioni significative in Cina e una forte dipendenza dalle vendite negli Stati Uniti, il colosso ha un delicato gioco di equilibri da compiere, navigando tra le tensioni geopolitiche tra Cina e Stati Uniti e seguendo un approccio internazionale alla governance aziendale.
Shein, che sta cercando di posizionarsi come azienda non cinese, ha promesso decine di milioni di dollari per sostenere gli stilisti svantaggiati, migliorare le condizioni di lavoro dei lavoratori dell’abbigliamento e compensare le proprie impronte di carbonio. Ma nonostante abbia parlato di trasparenza e tracciabilità nel suo più recente rapporto sulla sostenibilità e sull’impatto sociale, l’azienda non parla di molte delle sue pratiche commerciali, compresi i dettagli sui suoi fornitori, che si trovano principalmente in Cina. Shein ha dichiarato di avere una politica di tolleranza zero contro il lavoro forzato e di non avere produttori nello Xinjiang.
In una dichiarazione rilasciata al Wall street journal, Shein ha affermato di non lavorare con fornitori che si riforniscono di cotone dallo Xinjiang, «Shein non consente alcun approvvigionamento da quella regione». Gli analisti del settore moda sostengono che Shein non ha fornito prove a sostegno di tali dichiarazioni, incluso un elenco dei suoi fornitori, una divulgazione che è diventata una pratica standard nel settore.
«Rimane un punto interrogativo su quanto Shein tenga traccia della sua catena di approvvigionamento e se controlli pienamente le fonti delle materie prime utilizzate nei suoi prodotti», ha dichiarato Sheng Lu, professore associato di studi sulla moda e l’abbigliamento presso l’Università del Delaware. Shein non ha fornito «una solida garanzia che i suoi prodotti non contengano cotone [dello Xinjiang]».
Un gruppo di legislatori statunitensi ha recentemente richiesto un’indagine per verificare se Shein utilizzi il lavoro forzato come condizione per la quotazione in borsa negli Stati Uniti. Shein, che vende in oltre 150 Paesi ed è valutata a 66 miliardi di dollari, nel 2021 ha assunto il suo primo responsabile per l’ambiente, il sociale, e la corporate governance (Esg).
Nello stesso anno ha completato il trasferimento della sede centrale dalla Cina a Singapore. Da allora, secondo gli analisti del settore, l’azienda ha intrapreso iniziative per essere più trasparente sulle proprie pratiche e responsabilità aziendali. Secondo Remake, un’organizzazione statunitense che si occupa di sostenibilità nel settore della moda, Shein rimane una delle aziende di fast fashion meno trasparenti al mondo. L’ultimo rapporto Esg «un passo nella giusta direzione in termini di sforzi per la sostenibilità ambientale,» ha dichiarato Becca Coughlan, senior accountability manager di Remake. Tuttavia, ha aggiunto, «il lato sociale delle cose è così debole. È su questo punto che sono davvero in ritardo rispetto ai loro colleghi».
Il rapporto ESG di Shein non menziona lo Xinjiang per nome, ma dice che per rispettare le leggi statunitensi, i suoi partner di produzione sono tenuti a rifornirsi di cotone solo da Stati Uniti, India, Brasile, Australia e «altre aree approvate», che secondo l’azienda includono Bangladesh, Tanzania e Pakistan. Shein ha dichiarato di utilizzare test rigorosi per conformarsi a una legge statunitense che impone ostacoli all’importazione di articoli prodotti nello Xinjiang. «Se viene individuato del cotone proveniente da una regione non approvata, la produzione viene interrotta e tutti i prodotti contenenti cotone associato ai test positivi vengono rimossi dalla vendita».
«Gli sforzi di Shein per la trasparenza della catena di approvvigionamento sono in linea con gli standard del settore e per certi versi li superano,» si legge nella dichiarazione di Shein.
Lo Xinjiang è la più grande regione produttrice di cotone della Cina e, secondo i dati ufficiali del Governo, rappresenta quasi il 90% della produzione di cotone del Paese. Secondo l’azienda, circa il 10% dei prodotti tessili della Shein sono realizzati in cotone, rispetto al 64% dei prodotti in poliestere. Shein ha cercato di diversificare la propria catena di approvvigionamento al di fuori della Cina.
Dall’estate scorsa ha iniziato a produrre in Turchia e ha stretto una partnership con un importante rivenditore indiano, come riporta il Journal. I dirigenti di Shein speravano che l’approvvigionamento di un maggior numero di tessuti dall’India l’avrebbe aiutata a rispondere alle domande degli Stati Uniti sull’utilizzo di cotone proveniente dallo Xinjiang, come hanno riferito al Journal persone che hanno familiarità con la questione. Shein ha anche raddoppiato gli investimenti in Brasile, che diventerà il suo centro di produzione ed esportazione in America Latina.
Alcune iniziative delineate nel rapporto Esg sono insolite rispetto a rapporti simili di altre aziende cinesi, come i giganti tecnologici Alibaba Group e Tencent Holdings. Nessuna delle due aziende ha una base di clienti internazionali grande come quella di Shein. «Molti di questi programmi sarebbero sconosciuti alle aziende cinesi più tradizionali, più concentrate sui profitti e sul risultato economico,» ha dichiarato Chris Pereira, presidente della società di consulenza North American ecosystem institute, che in passato ha lavorato nel team di pubbliche relazioni di Huawei technologies.
Temu, la rivale in rapida ascesa di Shein, di proprietà dell’azienda cinese di e-commerce Pdd holdings, non comunica le proprie responsabilità aziendali. Dopo le segnalazioni di lunghi orari di lavoro e bassi salari presso i fornitori cinesi di Shein, il rivenditore online si è impegnato a migliorare le condizioni di lavoro in tutta la sua catena di approvvigionamento. L’anno scorso Shein ha dichiarato di aver impegnato 15 milioni di dollari per migliorare le strutture dei fornitori. Ad aprile ha dichiarato che avrebbe investito 10 milioni di dollari per fornire strutture ricreative e mense ai lavoratori dei suoi partner produttivi. Altri 5 milioni di dollari saranno spesi per costruire 60 centri di assistenza all’infanzia per i lavoratori dei suoi fornitori. (riproduzione riservata)