Via Tik Tok, spazio a Douyin. Il colosso del tech cinese ByteDance ha dimostrato una certa dose di equilibrio a districarsi nel polverone politico diplomatico scatenato dall’entrata in vigore della legge sulla sicurezza a Hong Kong, imposta da Pechino alla regione amministrativa speciale, che dal 1997 godeva di un’ampia autonomia e teatro da un anno di proteste contro il controllo cinese.
Tik Tok, piattaforma di condivisione video popolare anche tra i giovani in Occidente si è accodata a Facebook, Google, Twitter e Linkedin nel dichiarare di non voler rispondere alla richieste del governo cinese e delle autorità locali di fornire informazioni e dati sui propri utenti in ottemperanza alla nuove regole per soffocare quelle che il governo centrale considera atti di sovversione o di incitamento alla secessione.
Di fatto rappresenta per l’app l’abbandono dell’ex colonia britannica, lasciando libero spazio alla consorella Douyin analogo servizio fornito sempre da ByteDance, ma pensato per il mercato interno cinese. Il destino di Tik Tok, sotto la lente del segretario di Stato americano Mike Pompeo per il timore di collusione con Pechno è soltanto l’ultimo tassello del graduale allontanamento tra le due più grandi economie al mondo sin dall’inizio della presidenza di Donald Trump.
Da tempo risuona la parola decoupling, la rottura tra l’economia a stelle e strisce e quella del Dragone o il tentativo di tagliare fuori la Cina dalle catene di produzione globale. L’ipotesi di “un decoupling completo” è un’opzione sul tavolo ha annunciato lo stesso Trump in una delle consuete valanghe di messaggi su Twitter. Per i conservatori dell' American Enterprise Institute, in realtà, Washington è già in ritardo. In una breve guida sul come agire nei confronti di Pechino suggeriscono ad esempio l’imposizione di quote sulle importazioni dalla Cina, perché più efficaci rispetto ai dazi o ancora maggiori controlli sull’export, basi sul tipo di tecnologia.
Gli analisti del think tank chiedono anche l’istituzione di un nuovo organismo, sul modello del Cfius, il Comitato sugli investimenti esteri negli Stati Uniti, ma dedicato invece a fare la pulce agli investimenti statunitensi all’estero e in particolare verso la Repubblica popolare. Nonostante i proclami, scrivono però Nicholas Lardy e Huang Tianli sul Peterson Institute for International Economics l’integrazione della Cina nella finanza globale ha accelerato negli ultimi anni.
L’allentamento delle restrizioni che fino ad ora aveva limitato l’ingresso degli stranieri e degli statunitensi sta permettendo a queste ultime di incrementare la loro fetta nel mercato dei servizi finanziari del Dragone, il cui peso si aggira attorno ai 47mila miliardi di dollari. Inoltre gli investimenti diretti in Cina delle multinazionali Usa sono saliti da 12,9 miliardi di dollari nel 2018 a 14,1 miliardi del 2019. Secondo un sondaggio della Camera di commercio statunitense in Cina, l’80% delle società Usa non intende ricollocare la produzione fuori dalla Repubblica popolare. L’unico vero segnale di decoupling, scrivono gli autori, è il calo degli investimenti cinesi sull’altra sponda del Pacifico, calati a 4,8 miliardi lo scorso dopo un picco di 46,5 miliardi nel 2016. Il secondo campanello d’allarme è lo charme che la Borsa di Hong Kong esercita sulle quotate cinesi a New York.
Sono in totale 230 e su di loro incombe la minaccia di delisting qualora anche al Camera dovesse passare la proposta già approvata dal Senato che prevede l’uscita dai listini Usa nell’arco di tre anni per le società se non aderiranno ad alcuni principi standard del mercato. Trump ha rincarato dando alla Sec 60 giorni per definire come intervenire. Nel mentre la Semiconductor Manufacturing International Corporation, che ha lasciato New York nel 2019 scambia ora a Hong Kong. I colossi tech Jd.com e NetEase hanno invece optato per un secondary listing nella piazza finanziaria asiatica. E la stessa Alibaba sta studiano una maxi –ipo per il suo braccio fintech, AntFinancial, proprio nell’ex colonia britannica. La diplomazia intanto è al lavoro.
“Siamo ancora disposti a far crescere le relazioni Cina-Usa con buona volontà e sincerità”, ha detto giovedì il ministro degli Esteri, Wang Yi, usando toni concilianti nel corso di una conferenza con rappresentati di centri studi di entrambi i Paesi. Come sottolinea la società di consulenza Trivium, però, il fatto che abbia dovuto lanciare un appello nel corso di un appuntamento pubblico potrebbe indicare problemi nei tradizionali canali privati di contatto tra le due potenze.