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Azienda Agricoltura

La guerra del vino cino-australiana può favorire l'Italia

Sono scattati dazi fino al 200% sul prodotto australiano, il più importato in Cina. E ora Pechino, primo produttore mondiale di vino, vorrebbe incentivare il consumo di vino nazionale, puntando a raddoppiare le coltivazioni entro il 2025. Può essere un'opportunità per i produttori esteri di qualità


03/12/2020 13:42

di Marco Leporati*

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Vigne nello Yunan dove si produce a 6 mila metri

La guerra purpurea del vino tra Cina e Australia, primo esportatore di vino nel mercato del Dragone, si è caratterizzata  sabato scorso con la discesa in campo della Cina che ha meglio configurato i contorni della battaglia sottoponendo il vino australiano ad un dazio provvisorio variabile tra il 107% ed il 212% in accordo a una lista predisposta dal Governo.

Se qualche settimana fa il vino faceva parte di una serie di commodities cui era stato limitato l’ingressso in Cina, oggi si scopre che per il vino australiano è stata attivata dall’agosto 2019 una procedura antidumping che terminerà nel febbraio del prossimo anno.

Nelle more delle valutazioni questo dazio aggiuntivo viene considerato quale deposito con la speranza da parte dei produttori australiani ed importatori cinesi di vederselo restituito al termine di questa lunga e perigliosa istruttoria che riguarda l’accertamento dell’esistenza di situazioni di dumping nel mercato cinese.

Il ChAFTA (China Australia Free trade agreement) è decaduto dopo cinque anni di vitalità in mancanza di un rinnovo congiunto ed i produttori australiani sono sul piede di guerra per aver perso un mercato così remunerativo.

Nello stesso tempo, sulla base della regolamentazione del WTO, l’Australia sta predisponendo la documentazione per depositare il ricorso alla Commisione preposta  in merito al blocco delle esportazioni in Cina di orzo.

Wheihuan Zhou, avvocato e docente presso l’University of New South Wales di Sydney ha affermato che” il punto di discussione che dobbiamo affrontare non è la possibilità del rinnovo ma come prevenire che le parti continuino a ritirarsi dalle presenti posizioni direttamente o indirettamente“;  ancora una volta l’uso di una terminologia di belligeranza che, se aggiunta ai vari twitter pubblicati fa pensare al detto romano “dire a nuora perchè suocera intenda” ovvero la nuova amministrazione americana.

Da un punto di vista giuridico risulta evidente che l’indagine antidumping promossa dal Governo cinese sulla violazione delle regole di mercato per il vino australiano che attualmente ha una share di consumatori del 39%, pone un’ altra domanda ovvero la valutazione della tangibilità del vino australiano rispetto alla produzione domestica.

Questa condizionalità giuridica apre un’altra fonte di riflessione che riguarda la produzione domestica del vino e il suo consumo, tema discusso tra gli operatori presenti alla recente edizione del Vinitaly di Shenzhen.

È interessante quindi capire quanto vale oggi la produzione domestica, quale direzione prenderà in futuro in ossequio al paradigma della dual circulation e, soprattutto, quanto spazio di mercato rimarrà per i produttori esteri e il vino italiano in particolare.

Vorrei osare un paragone al limite dell’iconoclastia enologica: la produzione del vino rosso cinese ha in parte seguito quello che era accaduto in Italia sino ai primi anni ottanta; piccole produzioni di qualità e per il resto, dal nostro  Sud arrivavano camions di uva  per “tagliare“ e arricchire l’uvaggio del nord per una clientela che consumava il vino o nei circoli o in famiglia con i famosi bottiglioni di vetro.

Negli ultimi trent’anni l’Italia si è affinata ed oggi può vantare oltre cinquecento tipologie che coprono le varie categorie dei disciplinari (DOCG, DOC, IGP).

In Cina vengono importati isokit tank di vino sfuso dalla Spagna e Italia da imbottigliare localmente in quanto nel recente passato la produzione era limitata a qualche joint venture, in prevalenza con aziende francesi, tra cui Dinasty Winery Corporation nel 1980 con Remy Martin, Great Wall Winery nel 1983, o da produttori locali, Changyu in testa, costituita alla fine dell’ottocento, che hanno incrementato le aree di produzione esportando e facendosi conoscere anche all’estero, e aziende vinicole di nicchia quali Grace.

Ma come la Cina ha dimostrato di guardare lontano su tutti i fronti (l’ultima missione spaziale sulla Luna con la sonda Chang’e 5 ne è la conferma) ora si è attrezzata, anche sul fronte del vino, disseminando barbatelle di ogni genere, facendosi coadiuvare da enologi stranieri con grande esperienza e con tecnologie il più delle volte importate dall’Italia e dalla Francia.

Così nel 2014 è arrivata a essere il secondo vigneto al mondo con 800 mila ettari nonchè il primo produttore mondiale di uva con circa 12 milioni di tonnellate.

Si prevede entro il 2025 il raddoppio di queste superfici in particolare in province che per ragioni di microclima e di terroir si sono storicamente dedicate alla coltivazione della vite, lo Shangdong, Shaanxi, Hubei, Ningxia, con la sua area alle pendici del monte Helan, e lo Xingjiang, antica porta della Via della seta, che a Turpal difende la sua produzione.

Il gruppo Lvmh ha dato vita nel 2015 a un'iniziativa nella provincia dello Yunan, già vocata alla viticultura. Alle pendici del Monte sacro Meili, alla confluenza dei tre fiumi paralleli, Yangtze, Mekong e Salwen, a oltre 6 mila metri di altitudine, ha avviato una viticoltura che dopo quattro anni ha prodotto un eccellente Cabernet Sauvignon con l’etichetta Ao Yun.

Ovviamente anche lo scenario del mondo vitivinicolo si muove parallelamente a quanto sta accadendo nella tecnologia, le materie prime, le supply chain e l’Italia, uno dei maggiori produttori mondiali di vino, deve essere attenta a queste movimenti sfruttando ogni pertugio per affermare la propria identità sia nell’esportazione sia nell’investire nelle nuove coltivazioni. (riproduzione riservata)

*managing director a Shanghai di Savino Del Bene, azienda di trasporti internazionali e logistica. Vive e lavora in Cina da oltre 25 anni


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