Nicola Levoni, presidente e proprietario dell'omonimo salumificio di Mantova e dell'Associaizone dei produttori di carni bovine e suine, sta preparando una sbarco in forse sul mercato cinese, per aiutare a superare il brusco calo di produzione di carni, dovuto alla peste suina che infuria in Asia.
L'imprenditore italiano, quarta generazione di un'impresa che attualmente espèorta in oltre 50 paesi del mondo saluni e prosciutti tra cui il crudo San Danieli, uno dei brand più pregiati dell'agrifood italiano, ha proposto al governo cinese l'apertura di 5 mattatoi per suini, sulla base degli elevati standard italiani, accettati dalle autorità cinesi, dopo rigorosi test di qualità.
Il progetto di Levoni, condiviso con altri salumifici italiani, è stato appoggiato dal ministro dell'Agricoltura, Roberto Centenaro, ed è frutto di un intenso lavoro diplomatico della missione italiana a Pechino, guidata dall'ambasciatore Ettore Sequi, il cui mandato in scadenza quest'anno, dopo i fatidici quattro anni, potrebbe essere rinnovato nella stessa sede.
«C'è ancora qualche ostacolo normativo da superare,» ha dichiarato la settimana scorsa Levoni, «ma l'urgenza del problema è tale che confidiamo nella finalizzazione a breve del progetto». Che darebbe un forte impulso alle esportazioni italiane ma soprattutto a rafforzare la presenza della tecnologia zootecnica nel più grosso mercato al mondo per le carni suine, fortemente colpito dagli effetti dell'epidemia.
È di ieri la notizia che l'impennata dell'inflazione registrata nei primi mesi di quest'anno è stata causata da un aumento del 18% delle carni suine, mentre i focolai di peste suina di provenienza africana stanno contagiando gli allevamenti un po' dovunque. Un nuovo focolai è stato scoperto nella provincia meridionale cinese di Guizhou, nella città di Duyun, e il ministero dell’agricoltura e degli affari rurali ha confermato che sono stati scoperti oltre 120 i focolai mortali nelle diverse province, compresa l’isola di Hainan e la città di Hong Kong, da agosto dello scorso anno.
In questo quadro, si è aperta un'ulteriore porta alle esportazioni italiane in Oriente: quella di di Singapore alla bresaola italiana. L'annuncio lo ha dato lo stesso Levoni, a conclusione di una lunga trattativa del Ministero della Salute italiano con la Singapore Food Agency (SFA) per l’esportazione di prodotti a base di carne bovina e di carni bovine dall’Italia verso la città-stato dell’Estremo oriente.
«Singapore è una delle città più cosmopolite del mondo e rappresenta un importante hub per il mercato asiatico, la decisione della SFA di autorizzare l’importazione di bresaola italiana è un punto di partenza: dobbiamo ora proseguire nelle trattative per ottenere l’apertura del mercato di Singapore a tutta la gamma dei salumi italiani, inclusi quelli a breve stagionatura come i salami, le coppe e le pancette,» ha aggiunto Levoni.
Nel 2018 le esportazioni italiane di salumi hanno registrato una crescita del 6,7% in peso e del 3,9% in valore, raggiungendo quasi i 2 milioni di euro.
Ma gli occhi dei produttori italiani, in particolare quelli di Alberto Beretta, ceo del maggiore salumificio italiana, che in Cina ha conquistato una buona fetta di mercato, sono concentrati sulle mosse del governo cinese che sta aumentando le importazioni di carni per far fronte alla minor produzione interna per via dei capi abbattuti: la produzione cinese di maiali quest’anno potrebbe crollare del 30%, secondo Rabobank, mentre ad aprile scorso i capi abbattuti avevano superato il milione.
La Cina è il più grande produttore di carne suina al mondo. Ma il ministero dell’agricoltura dell’ex Celeste impero prevede che le importazioni cinesi di carne suina raggiungano nel 2019 quota 1,7 milioni di tonnellate (+40% sul 2018), per poi salire a 2,1 milioni nel 2020 e iniziare a diminuire dal 2021.
La peste suina sta colpendo anche altrove, nel Far east: sotto attacco Vietnam, Cambogia e Mongolia. Il governo vietnamita ha annunciato a fine maggio di aver abbattuto 1,7 milioni di maiali, ovvero il 5% della popolazione suinicola dell’intero paese.
Questa situazione sta influenzando il mercato delle commodity, dove il prezzo della soia è crollato di recente, a seguito delle barriere tariffarie sulle importazioni, issate da Pechino nell’ambito dello scontro commerciale tra Usa e Cina.
Prima della guerra dei dazi, infatti, il mercato cinese assorbiva un terzo della produzione statunitense di soia; oggi le importazioni sono quasi azzerate, dopo un primo aut aut dettato da Pechino, che nel luglio 2018 aveva determinato una contrazione del 25%. Oggi, nonostante un timido segnale di apertura da parte cinese, culminato nell’acquisto di qualche carico per dimostrare buona volontà nelle trattative al governo Usa, la situazione è ancora al palo.
Tanto che, il presidente Usa, Donald Trump, a fine maggio, ha stanziato aiuti per 16 miliardi di dollari in favore degli agricoltori americani colpiti dal blocco delle importazioni cinesi. In questo scenario, una minore domanda di soia nel Far east, sia per quella destinata al consumo umano, a causa della guerra commerciale (1,4 miliardi di consumatori cinesi), sia per il minor fabbisogno di mangimi dovuto alla decimazione dei capi di bestiame, potrebbe gelare ulteriormente i listini. Dal primo marzo ad oggi la commodity ha subito un calo del 4,7% nelle quotazioni, raggiungendo un minimo di 791 dollari Usa a bushel sulla piazza di Chicago, con una media del periodo di 869 dollari.