Entro fine anno l’Italia dovrà decidere riguardo all’uscita dalla Belt and Road Initiative (Bri), la cosiddetta «Nuova Via della Seta», il principale progetto di sviluppo globale della Cina a livello economico e geopolitico. Nel marzo del 2019 il governo di Giuseppe Conte, basato sull’alleanza tra Cinque Stelle e Lega, aveva firmato il memorandum per la Bri, diventando l’unico Paese del G7 ad aderire. L’irritazione degli Usa passò in secondo piano rispetto alla prospettiva di un miglioramento dei rapporti commerciali con la Cina.
Rispetto ad allora il mondo è cambiato. La guerra in Ucraina e le crescenti tensioni Usa-Cina hanno riportato al centro dell’attenzione le questioni politiche rispetto a quelle economiche. Il governo Draghi e poi quello Meloni hanno ricollocato l’Italia in senso atlantista. È aumentato l’uso del golden power, come accaduto nella vicenda Pirelli. E adesso, a quasi cinque anni dalla firma del memorandum, l’Italia potrebbe diventare il primo Paese ad abbandonare la Bri. Meloni, pur ricordando di non esser stata d’accordo con le decisioni di Conte, si è mostrata prudente e si è detta consapevole che si tratti di una mossa «delicata» per il Paese.
Persino Janet Yellen, segretario al Tesoro Usa, nel viaggio in Cina ha provato a ricucire i rapporti con il gigante asiatico negando la volontà di un «decoupling» con l’economia cinese, nonostante sia in corso una battaglia sui microchip. La posizione dei leader europei, poi, a cominciare da quelli di Germania e Francia, è molto ambigua, divisa tra collocamento atlantista e forti scambi commerciali con la Cina (se non vera e propria dipendenza economica).
In attesa di conoscere la posizione finale del governo Meloni, a distanza di quasi cinque anni si può valutare l’impatto economico per l’Italia dell’ok al memorandum sulla Bri. I dati economici raccolti da Pictet Wealth Management mostrano che non ci sono stati effetti significativi su esportazioni e investimenti. La Cina rappresenta solo il 2,6% delle esportazioni totali di beni (0,9% del pil), mentre il dato arriva al 6,8% per la Germania e al 4% per la Francia.
Pechino è al decimo posto tra i principali partner commerciali dell’Italia: il primo Paese è la Germania (12,4% delle esportazioni italiane), seguito nell’ordine da Usa, Francia, Spagna, Svizzera, Regno Unito, Belgio, Polonia e Olanda. Poi c’è la Cina, subito prima dell’Austria. In termini assoluti, nel 2022 le esportazioni dell’Italia verso la Cina hanno raggiunto i 16,4 miliardi di euro. Tra queste, il valore più alto è stato registrato per l’esportazione di macchinari e i mezzi di trasporto (6 miliardi) e per gli altri prodotti manifatturieri (4,5 miliardi).
Come sono cambiati i dati rispetto al 2019? Da quando l’Italia ha sottoscritto il memorandum Bri, «non c’è stato un aumento significativo delle esportazioni», osservano Nadia Gharbi e Dong Chen, economisti di Pictet Wealth Management. «Il recente e breve picco di esportazioni italiane verso la Cina (si veda grafico a pagina 22, ndr) è da attribuire alla presenza in Italia di un impianto di Pfizer legato alla produzione di un farmaco anti Covid». Allo stesso modo, «negli ultimi anni non sono neanche aumentati significativamente gli investimenti diretti cinesi in Italia. Tuttavia in questo caso è probabile che la pandemia abbia influito sul rallentamento del flusso di investimenti dato che l’Italia è stato uno dei Paesi più colpiti in Europa». Gli economisti concludono comunque che «partecipare alla nuova Via della Seta non rappresenta pertanto una garanzia di ottenere maggiori investimenti, sebbene offra alcuni vantaggi».
Il principale risvolto negativo potrebbe essere il rischio di danneggiare le imprese italiane che hanno una maggiore esposizione o rapporti commerciali con la Cina, secondo Pictet. In passato i marchi occidentali che si sono espressi contro le violazioni dei diritti umani nella regione cinese dello Xinjiang, che produce una larga percentuale del cotone mondiale, hanno visto calare i consumatori negli anni successivi. Ma data la situazione geopolitica globale «non è detto che le imprese italiane debbano necessariamente subire una simile reazione», osservano Gharbi e Chen.
Dal punto di vista cinese, l’addio dell’Italia alla Bri sarebbe «una grave battuta d’arresto per l’iniziativa, che peraltro ha prodotto finora risultati contrastanti anche con altri aderenti» secondo Pictet. La scelta, tuttavia, non sarebbe una sorpresa per Pechino, considerato il decoupling nelle relazioni tra Stati Uniti e Cina. «Non prevediamo una forte reazione negativa cinese se l’Italia dovesse decidere di ritirarsi», rilevano gli economisti Gharbi e Chen. «La Cina ha bisogno di mantenere una relazione relativamente stabile con l’Europa considerato il raffreddamento dei legami con gli Stati Uniti. E una ritorsione contro l’Italia non le gioverebbe». (riproduzione riservata)